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Scheda critica del film:

  

Corpo e anima

(A teströl és a lélekröl)

La regista

Ildikó Enyedi è nata il 15 novembre 1955 a Budapest, in Ungheria. È  scrittrice, regista e sceneggiatrice, tra i suoi film ricordiamo:
Vakond (1986), Il mio XX secolo (Az én XX. századom) (1989)con cui vince la Caméra d'or al Festival di Cannes nel 1989, Büvös vadász (1994), A Gyár (1995), Tamás és Juli (1997), Simon mágus (1999), Európából Európába (2004), Első szerelem (2008).

Cosa ne hanno detto

Animale. Maschio. Femmina. Corpo. Anima. Cinque parole e un film che le mette insieme. La risultante: una commedia. Una commedia che è, letteralmente, la costruzione di un amore pezzo dopo pezzo. La regista ha scritto il suo film come una spirale concentrica, partendo da lontano e accostando dimensioni oniriche e rappresentazioni realistiche e rivelando un po' alla volta il senso palese del racconto. Corpo e anima è fatto di sogni e di segni; è ovviamente un film psicanalitico, non troppo concentrato, però, sui meccanismi simbolici che mette in scena. Ha l'intelligenza di trasformare il mondo che racconta nell'effetto finale, esplicito eppure mai banale, della convergenza di molteplici azioni e reazioni.
Centro del film è un mattatoio: ai piani superiori dell'edificio, i dirigenti osservano gli operai; ai piani inferiori, gli operai macellano mucche dallo sguardo vacuo. Tutti si guardano, si studiano e desiderano, nessuno si tocca. Insieme, dirigenti e operai, si incontrano nella mensa aziendale. Due personaggi, il direttore finanziario e la nuova responsabile della qualità, lui cinquantenne con un braccio paralizzato, lei trentenne apatica e vagamente autistica, si conoscono durante un pranzo dopo essersi osservati a distanza. La storia d'amore racconta dal film è ovviamente la loro, ma prima di arrivarci, immersi in un'atmosfera grigiastra da mediocrità esistenziale che un po' alla volta si apre a un umorismo e una dolcezza inattesi, bisogna assistere al progressivo e complesso avvicinamento dei due soggetti amorosi, come se ogni passaggio fosse la tappa di un processo onirico.
«Il linguaggio è una pelle», diceva Roland Barthes, «io sfrego il mio linguaggio contro l’altro». Corpo e anima sta racchiuso in una frase come questa, racconta l'amore parlando soprattutto di corpi (corpi di animali squartati, corpi di altri animali che si amano toccandosi, corpi di uomini e di donne che non sanno toccarsi ma un po' alla volta imparano a farlo...). Nel corso del corteggiamento amoroso a distanza fra i due protagonisti, le azioni ritornano, tutto diventa numero, ripetizione, oggetto mummificato. Le frasi dette sono memorizzate e trasformate in ricordo vuoto, al limite del patologico; il sangue fa prima orrore, poi diventa il segno di un cuore che comincia finalmente a battere; un braccio insensibile è un oggetto ingombrante che non è da ostacolo durante il sesso. Oltre la vacuità del reale, per fortuna, c'è l'incontro di due anime, non solo una combinazione di presenze.
(Roberto Manassero, 3 Gennaio 2018, Cineforum.it).

I limiti del corpo. I confini della mente. Lo spauracchio dell'amore, e le meravigliose praterie di possibilità che è in grado di aprire.
Un mattatoio, un direttore finanziario solitario con un braccio che da un po' è un'appendice  senza vita, una nuova responsabile della qualità con una qualche forma d'autismo funzionale: i due scoprono di fare gli stessi sogni, ma non simili, proprio gli stessi. Sognano di essere due cervi che si corteggiano nei boschi, di tornare - lo diciamo noi per loro - a quello stato di natura che li libererebbe delle convenzioni arrugginite e delle barriere dei loro corpi e delle loro menti. Appunto.
Un po' commedia bizzarra e surreale, un po' dramma tanto simbolista da risultare psicanalitico per struttura e connessioni, Corpo e anima trova un equilibrio di toni morbido e avvolgente proprio lavorando sui tanti contrasti e le tante opposizioni che mette in scena nel racconto, tessendo attorno a questi due protagonisti così idiosincratici, e così bene interpretati, un universo fatto di tessere e figure secondarie solo in apparenza.
Ildiko Enyedi gioca a ridurre la complessità dei temi e a amplificare senso e rilevanza delle piccole cose e dei piccoli gesti, aprendo porte di vetro attraverso le quali osservare le psicologie dei suoi due personaggi principali, come degli altri, affrescando con un formalismo sempre elegante, e sempre più di passo indietro rispetto al manierismo stucchevole, un mondo dove le debolezze umane sono il colore e il sapore delle cose.
Il corpo e la mente. L'uomo e la donna. Il giorno e la notte. Il sole e l'ombra, Il lavoro e il riposo. La carne viva e quella morta. La pulsione e la paura. Tutto il film di Enyedi vibra tra queste polarità, vibra di un'elettricità dolce che intorpidisce gradevolmente senza addormentare, e che occasionalmente sale di tensione e di frequenza. Come il cuore che, a tratti, batte più forte, come il respiro che si fa più intenso, come quel desiderio che non riesci a mettere a tacere.
Tutto giusto, tutto bilanciato: forse pure troppo.
(Federico Gironi, 10 febbraio2017, coomingsoon.it)


Ildikó Enyedi coniuga il film in fabbrica alla surrealtà “palpabile” del leitmotiv onirico: da una parte il grigio quotidiano di un macello, dall’altra gli innesti sognati sempre in pillole brevi, quadri a poche pennellate, per poi tornare alla cornice concreta. Perché è l’interferenza onirica che rafforza l’asperità del vero. La cineasta non si limita però alla parabola dei freak che si trovano, all’incontro tra due solitudini: nel suo rimestare trova una peculiarità che deriva proprio dal disturbare il reale, dal dialogo sfacciato tra plausibile e fantastico. La sua è metafora evidente: incarna l’autismo relazionale nella mano offesa e nell’incapacità di contatto, prevede dialoghi palesi (a Mária non piace il suo nome, non vuole sentirlo pronunciare, assegna solo B al controllo qualità), fa retorica dei simboli, ci trascina sull’empatia coi protagonisti (come non amare questi due inadatti). E insieme come esercizio di cinema dell’immaginazione funziona, nel suo onirismo senza pudore, nello scarto dell’opportunità realista, frequentandola, in favore di quella favolistica. Che male c’è nel fidarsi di una storia? È forse obbligatorio il cinismo? Non è lecito pensare un lieto fine? Ildikó Enyedi si dimostra indefessa ottimista: dice della difficoltà del contatto, dell’impossibilità dei palliativi, del dolore che porta all’essenza. Ma anche di una predestinazione amorosa. Per questo fa sparire i cervi “trasferendoli” nei personaggi. Lascia solo il paesaggio, al nostro sguardo, prima dello schermo bianco e non nero: ci chiama, come i cervi, a svanire non nel buio ma nella luce, attraverso una concretizzazione, a dissolvere la materia dei sogni per avere incarnato la sostanza in realtà.
(Emanuele Di Nicola, 15 Gennaio 2018, spietati.it)


………curiosa storia d’amore tra Endre, il direttore di un mattatoio con un braccio paralizzato, e Maria, nuova ispettrice del controllo qualità la cui menomazione è affettiva. I difficili tentativi di avvicinamento si sbloccheranno quando scoprono di fare lo stesso sogno, in cui sono due cervi che vivono nel bosco ghiacciato. Tutto giocata su metafore e allegorie evidenti fin dalla prima scena (l’utilizzo degli animali, degli oggetti, delle disfunzioni psichiche e fisiche: tutto ridonda e sottolinea il cuore del film), la sceneggiatura della stessa Enyedi compone un quadro curioso, in cui la commedia sentimentale diviene bizzarra e straniante ricognizione psicologica ed esistenziale.
Al fondo di Corpo e anima ci sarebbe “soltanto” il corteggiamento di due animali solitari che sfidano le loro remore (non solo l’anaffettività compulsiva di Maria, anche la pace dei sensi di Endre) per avvicinarsi, per tornare a vivere possibilmente insieme: è il lavoro che Enyedi fa attorno ai personaggi che porta il film un passo oltre, l’utilizzo di inquadrature perfette dentro cui sbozzare le imprecisioni dei sentimenti, una messinscena sapiente e ironica che supera gli schematismi e le programmaticità dello script….
(Emanuele Rauco, 2 gennaio2018, Ilcinematografo.it)


"(...) Enyedi ritrova almeno un po' quel tocco da favola del suo primo film, l'unione misteriosa che può accadere tra due esseri umani, anche sconosciuti, forse legati da un filo misterioso, da un'affinità che è quella della solitudine, di un sentimento che li allontana dal mondo. In fondo  è una storia d'amore che non segue le traiettorie (narrative) abituali, due si incontrano, si piacciono, si studiano poi si baciano e fanno l'amore anche se l'attrazione a distanza tra i due protagonisti è densa di erotismo e sensualità. E' il mistero di uno sguardo obliquo, la palpitazione impossibile, la sorpresa spaventosa e insieme magica di scoprire qualcuno che vive nel tuo stesso sogno, anche se impossibile, anche se doloroso. (...) Io preferisco vederci una strana storia d'amore, punteggiata di gesti goffi, di una tenerezza che sembra impossibile tra le stanze piene di sangue degli animali ogni giorno, del bisogno di credere che uscire dalle proprie nevrotiche paure - degli altri, del mondo, di amare, di stare male - è possibile. Forse non accade ma ci si può provare, fino a sembrare fuori di testa. Può sembrare contorto come tutto ciò che non si riconosce, sospensione del reale per la sua essenza, un paesaggio indistinto che appartiene al vissuto. Un po' come i film della regista che si avventurano su territori eccentrici, compiendo detour anche rischiosi."

(Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 11 febbraio 2017)

scheda tecnica a cura di Stefano Bona




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