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Scheda critica del film:

  

Wajib - Invito al matrimonio

(Wajib)

 

La regista
Annemarie Jacir (Betlemme 1974), regista e poetessa, vive la propria infanzia e giovinezza tra la Palestina e Riad (Arabia Saudita) e seguendo il padre che lavora nell’agenzia ONU ‘responsabile dei campi profughi’ ha potuto conoscere da vicino il dramma di uomini, donne e bambini strappati dal loro Paese e più o meno rinchiusi a macerarsi dietro i ricordi senza molte speranze per il futuro. A sedici anni si trasferisce negli Stati Uniti (California) dove si laurea in Politica e Letteratura. Avendo deciso di intraprendere la carriera di regista, proponendosi di contribuire alla crescita della cinematografia palestinese, si reca a New York e consegue un master in cinema alla Columbia University. Tornata in Palestina, realizza il suo primo lungometraggio Il sale di questo mare (2008)che è anche il primo realizzato da una donna, ma le autorità israeliane le vietano di stabilirsi nel Paese costringendola all’esilio ad Amman, esperienza che le ha ispirato il soggetto per il secondo film: Quando ti ho visto (2012). Riuscita a tornare in Palestina, vive a Haifa, una delle due grandi città della Palestina storica. L’opera della Jacir è caratterizzata da leggerezza e poesia anche nel raccontare situazioni e atmosfere pesanti come quelle del vivere da stranieri nella propria terra o di un conflitto generazionale che diviene anche ideologico tra giovani e anziani.

Il cinema palestinese non è certamente tra le cinematografie più conosciute. Ibrahim Hasan Sarhan - fondatore della prima casa di produzione palestinese - può esserne considerato il padre avendo realizzato tra il 1935 e l’inizio degli anni quaranta i primi cortometraggi. Vi è poi un vuoto fino al gennaio 1968 quando al-Fatah crea una struttura cinematografica per affiancare e documentare le attività miliari dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina): ovviamente è un cinema militante, prevalentemente documentario e propagandistico. È solo negli anni Ottanta che comincia a manifestarsi il ‘nuovo cinema palestinese’ grazie all’attività di giovani cineasti per lo più esuli in Europa e all’impiego di finanziamenti europei. Caposcuola di questa nuova fase è Michel Khleifi che nel 1980 realizza al-Dakira al-hisba (La memoria fertile), il primo lungometraggio documentario palestinese in cui attraverso i ritratti di due donne (un’anziana operaia e una giovane scrittrice) si evidenzia una delle tematiche che sarà poi filo conduttore di molte opere: il conflitto tra tradizione e modernità all’interno della cultura palestinese. Sempre a Khleifi si deve nel 1987 il primo lungometraggio di fiction Urs al-Galil (Nozze in Galilea) che con i numerosi premi conseguiti lo fece conoscere a livello internazionale. Negli anni successivi molti sono i film che hanno primeggiato a livello internazionale: come non ricordare tra le opere più recenti Omar (di Hany Abu-Assad, 2013), Io sto con la sposa (una coproduzione italo-palestinese del 2014) e The idol (2015 in cui Abu-Assad narra la giovinezza di un mito della musica palestinese: Mohammed Assaf). Questi rapidissimi cenni non possono dimenticare Mai Mastri cui si deve l’avvio di un processo sociale e artistico che ha visto le donne palestinesi sempre più protagoniste davanti e dietro la macchina da presa, autrici di un cinema di testimonianza sulle difficoltà della vita quotidiana del proprio popolo. Specialmente negli ultimi due decenni la cinematografia palestinese ha raggiunto notevoli livelli artistici divenendo il miglior veicolo per far conoscere attraverso festival e premi internazionali le istanze di un popolo.

Commento Wajib resta a lungo nella memoria per la capacità di Annemarie Jacir di raccontare con la levità di una commedia situazioni e contesti anche drammatici: i difetti e le debolezze dei protagonisti sono visti con ironia non priva di affetto e comprensione e gli aspetti più drammatici sono mostrati ma non divengono oggetto di affermazioni ideologiche. Jacir cerca non di condizionare lo spettatore, ma di lasciarlo libero di formulare una propria idea. L’intuizione dell’autrice è stata mostrare il dramma di una città e di una comunità attraverso quello di una famiglia. Nazareth non è solo la cornice che racchiude la narrazione, ma è la terza (o forse la principale) protagonista del film: una realtà palestinese all’interno dello Stato israeliano, una comunità che sente tutto il peso di essere considerata di serie B e tenuta soggiogata e controllata con un guanto a volte di velluto, a volte no. Le scuole palestinesi, per esempio, sono sotto il controllo di un’apposita struttura governativa: la regista fa emergere la situazione da un contrasto tra padre e figlio sull’invitare al matrimonio un israeliano il cui compito è controllare l’attività del padre. Tra il padre fermatosi a vivere a Nazareth e costretto a ‘ingoiare rospi’ per poter continuare a insegnare e mantenere la propria famiglia e il figlio che ha preferito l’esilio all’essere un cittadino con diritti limitati la regista non sceglie, ma ci fa capire che considera entrambi resistenti, ma in un modo diverso. E forse è molto più difficile e doloroso (anche perché incompreso) quello di chi resta. Wajib fa capire altre situazioni difficili: quella religiosa (a Nazareth circa il 40% dei palestinesi sono cristiani, minoranza nell’articolato mondo arabo rispetto ai musulmani), le differenze tra i palestinesi delle terre del nord (dove è Nazareth) e quelli della striscia di Gaza, il contrasto tra modernità e tradizione e il dramma di non potersi muovere liberamente, circondati da posti di blocco, controlli, confini e muri. Tutto questo e molto altro ancora narra la regista, trasportando nelle immagini quell’ironia e dolcezza che probabilmente l’hanno supportata nelle sue vicende personali. Wajib è un film di classe, da vedere e su cui meditare e forse ci si accorge che è meno lontano dalla nostra vita di quanto si possa credere.

scheda tecnica a cura di Salvatore Longo
 



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