Home
 • Il Programma
  

 


Scheda critica del film:

  

Il traditore

 

Il Regista
Marco Bellocchio è senza dubbio uno dei più importanti registi italiani di sempre.
Nato a Piacenza nel 1939, esordì nel 1965 con un film (I pugni in tasca) teso a penetrare il mondo in dissoluzione della borghesia provinciale. Fu una sorta di film manifesto, prodotto a bassissimo costo, che ebbe un rilievo particolare nel cinema di quegli anni e che lasciò ampia traccia in seguito. Le opere posteriori ripropongono questa volontà di indagare il quadro provinciale (La Cina è vicina, 1967), o un universo chiuso (il collegio di Nel nome del padre, 1972), con risultati di buon livello, che scadono invece in Sbatti il mostro in prima pagina (1972). L'accostamento a una realtà di emarginazione imposta, riporta B. al buon livello di Nessuno o tutti (edizione ridotta dal titolo Matti da slegare, 1974), film-inchiesta sugli ospedali psichiatrici. Marcia trionfale (1976) si ricollega ai consolidati suoi interessi: un mondo chiuso (la caserma), con leggi che lo regolano volte solo a riaffermare il principio di autorità. Ha diretto anche: Salto nel vuoto (1980), Gli occhi; la bocca (1982), Enrico IV (1983), Diavolo in corpo (1986), La visione del sabba (1987), La condanna (1990). Con Il sogno della farfalla (1994), Il principe di Homburg (1997, tratto dal dramma omonimo di H. von Kleist) e La balia (1999, dalla novella di L. Pirandello), opere dirette con stile essenziale e rigoroso, ha proseguito nella personale analisi dei rapporti familiari e dei conflitti psichici, soffermando spesso l'attenzione su personaggi emarginati e su ambienti soffocanti. Nel 2002 ha diretto L'ora di religione (Il sorriso di mia madre), considerato uno dei suoi film più intensi e riusciti, premiato con 4 Nastri d'argento (tra cui quello per la miglior regia) e un Globo d'oro per il miglior film. Il film, che analizza con profondità la cultura dominante nell'Italia contemporanea soffermandosi sulla mercificazione del sacro, è incentrato sulla reazione del protagonista alla notizia del processo di beatificazione della madre. Gli hanno fatto seguito Buongiorno, notte (2003), incentrato sul rapimento di Aldo Moro; Il regista di matrimoni (2006); Vincere (2009),  ricostruzione della tragica vicenda di Ida Dalser e di Benito Albino con cui nel 2010 B. si è aggiudicato il David di Donatello per la miglior regia; Sorelle mai (2010), film intimo e familiare realizzato attraverso il montaggio di sei cortometraggi sperimentali girati nell'arco di un decennio; Bella addormentata (2012), sul caso di Eluana Englaro; Sangue del mio sangue (2015); nel 2016, Fai bei sogni, tratto dall'omonimo romanzo di M. Gramellini, e il corto Pagliacci; Il traditore (2019), su Tommaso Buscetta, premiato con 7 Nastri d'argento (tra cui quelli per la miglior regia e per il miglior film). Nel 2017, dopo le felici sperimentazioni teatrali del Rigoletto (2010) e di Pagliacci (2014), ha portato in scena Andrea Chénier di U. Giordano su libretto di L. Illica.

Figura ambigua
Il rischio di simpatizzare nel corso del film è forte, ma Bellocchio, anche a costo di barattare le sue fulminanti illuminazioni con una narrazione impersonale e a volte impacciata (tutta la parte americana), non ha bisogno di rimarcare l’odiosità di Buscetta come assassino mai reo confesso (chissà se quell’omicidio finale è sognato dal protagonista o immaginato dal regista…) e nemmeno l’ambiguità di una figura malvagia eppure salvifica: a suo tempo lo fece lo stesso Biagi in una storica intervista ricostruita brevemente nel film, e non era dunque il caso di ripetersi. Gli basta, invece, a Bellocchio, mettere in scena il cortocircuito percettivo di cui lo stesso Buscetta, in quanto mafioso, era vittima, e attraverso la sua esperienza rappresentare l’insicurezza di noi italiani di fronte alla mafia. Tutti quanti – Bellocchio compreso – sappiamo coglierne i segni, ma nessuno ne comprende fino in fondo la natura, incapaci come siamo di distinguere la storia altra di Cosa nostra da quella ufficiale a cui troppo spesso si è sovrapposta o addirittura sostituita.
(Roberto Manassero, Cineforum)

Un Paese abituato a tradire
Il traditore, come tanto cinema di Bellocchio, tratta di una questione precisa, solo per allargare il campo e dire tutto ciò che questa significa in termini di immaginario. Quindi non è un film di mafia, se non nella misura in cui di mafia si parla, perché quello che interessa al regista è il sondare la coscienza di un Paese abituato a tradire, attraverso le maschere di questo teatro di figure, grottesche per vocazione e orrorifiche senza alcuna forzatura (attori tutti magnifici, Lo Cascio enorme). Un teatro che si manifesta in due modi: il primo è quello della ricostruzione puntuale, come nelle scene del processo, in cui un giudice senza alcuna autorevolezza tenta di tenere a freno le escandescenze degli imputati. Sono scene eccessive solo per chi non sa che le cose si svolsero proprio in quel modo, perché a questo livello Bellocchio non mitizza o idealizza i personaggi, ma evidenzia come la realtà possa farsi rappresentazione da sé, senza drammatizzazioni o riletture.
Il secondo modo in cui opera questo teatro è quello delle interpretazioni di quella realtà: qui Bellocchio si muove a un livello più profondo - semicosciente e vagamente allucinatorio -  nel quale lavora soprattutto la sua osservazione dei personaggi, e la traslazione dei risultati della sua indagine psicologica in immagini simboliche - come quelle degli animali (la iena Riina, i topi-picciotti che scappano quando c’è il blitz, Pippo Calò come una tigre in gabbia) - o in visioni angoscianti (ancora Calò bombardato dalle parole della vedova Schifani, come un mantra ossessivo e purgatoriale). Il Bellocchio che conosciamo, insomma: quello che da un lato espone una vicenda emblematica della nostra Storia a tinte forti e brutali e, dall’altro, ne fa uno psicodramma della nazione, significativamente sintomatico (come Buongiorno, notte o La bella addormentata, di recente), un intrico di piste, alcune marcate, altre meno nitide (l’onirismo), altre ancora suggerite in trasparenza. Un affresco mobile (fino allo scomposto, va detto) e «inattendibile» (come si dice della testimonianza di Buscetta in ultima istanza - e il titolo del film, in questo senso, può assumere tinte inquietanti - ), temporalmente frammentato, in cui formicolano molteplici figure e il cui centro a volte si mette a fuoco, a volte si lascia solo intuire.
(Luca Pacilio, Spietati)

La fuga dalla morte
Tutta l’esistenza di Buscetta (che Pierfrancesco Favino incarna con ingegno d’attore e grandissimo talento nel ruolo di una vita) è scissa in un prima e un dopo. Tornando a prendere in considerazione le sbarre che separavano i suoi figli da quella tigre, si potrebbe affermare che la sua vita si sia divisa in un “davanti” e un “dietro” quelle sbarre, al di là delle quali c’è sempre Cosa Nostra, animale che aspetta di divorarlo nel momento in cui quella protezione cadrà. E l’arguta metafora di Bellocchio porta a vedere tutta l’esistenza di Tommaso “Don Masino” Buscetta come una forsennata fuga dalla morte, dagli esiti sempre incerti e dai risvolti sempre imprevedibili.
Bellocchio realizza un importante film sull’identità, quella che Don Masino falsifica più volte confidando (erroneamente) nella validità del solo nome, diventando prima Manuel Cadena, poi Adalberto Barbieri e infine Paulo Roberto Felice. Identità intesa, inoltre, come ruolo e come etichetta: Buscetta, che poi diviene Don Masino, o il boss dei due mondi, diventa la mafia stessa quando vincolato a essa, poi il traditore e un bersaglio quando, vincolato alla giustizia, Diviene nemico della stessa (anche più dello Stato).
 (Federica Cremonini, Cinematographe)

scheda tecnica a cura di Paolo Filauro

 



© 2019 2020 Cineforum Genovese