Il Regista
Figlio del regista ungherese András Jeles, Làzlò Nemes nasce a Budapest nel 1977 e si trasferisce presto a Parigi, dove studia storia, relazioni internazionali e sceneggiatura. Entra nel cinema come assistente alla regia, lavorando per due anni anche con Béla Tarr, mentre inizia a dirigere dei cortometraggi che ottengono un grande successo in molti festival internazionali: With a Little Patience (2007), presentato alla Mostra di Venezia e candidato agli EFA, The Counterpart (2008), in anteprima al Gijon International Film Festival, e The Gentleman Takes His Leave (2010), che fa incetta di premi in patria. Dopo essersi trasferito a New York per studiare regia, torna in Francia dove, grazie a una borsa di studio di Cinéfondation, sviluppa con Clara Royer la sceneggiatura de Il figlio di Saul.
Nel 2012 entrambi continuano a lavorare sul copione del film per 7 mesi al Jerusalem International Film Lab. Il figlio di Saul segna infine l’esordio nel lungometraggio di Nemes e, grazie al Gran Premio della Giuria a Cannes e a una trionfale accoglienza di pubblico e critica, lo impone da subito come uno dei più importanti autori della sua generazione.
Note di regia
L’idea del film: “Stavo girando in Corsica L’uomo di Londra di Béla Tarr, con cui lavoravo come assistente alla regia. Le riprese erano state interrotte per una settimana, avevo molto tempo libero e in libreria ho trovato un volume pubblicato dal Mémorial de la Shoah con il titolo Des voix sous la cendre (in Italia, La voce dei sommersi), che raccoglie gli scritti di alcuni membri dei Sonderkommando di Auschwitz. Prima della loro rivolta del 1944, queste pagine clandestine vennero nascoste sotto terra e ritrovate solo molti anni dopo la fine della guerra. Si tratta di una testimonianza straordinaria, che descrive i compiti quotidiani dei Sonderkommando, ma anche come questi uomini riuscirono a creare una certa forma di resistenza. Da questo libro è venuta l’idea de Il figlio di Saul”.
Un approccio originale: “Ho sempre trovato frustranti i film sui campi di concentramento. Provano a costruire storie di sopravvivenza e eroismo, ma secondo me propongono di fatto una concezione mitica del passato. La testimonianza dei Sonderkommando è invece qualcosa di concreto e tangibile. Descrive in diretta il “normale” funzionamento di quella fabbrica di morte: la sua pianificazione, le regole, i turni, i rischi, i ritmi produttivi. Le SS usavano la parola Stück, pezzo, per riferirsi ai cadaveri, come se fossero oggetti prodotti in fabbrica. Questa testimonianza, insomma, mi ha permesso di vedere l’accaduto attraverso gli occhi dei dannati dei campi di concentramento”.
Le regole stilistiche: “Insieme al direttore della fotografia e allo scenografo abbiamo deciso, prima di iniziare le riprese, che ci saremmo attenuti a una serie di regole: 1) il film non deve essere visivamente bello e accattivante; 2) non possiamo fare un film dell’orrore; 3) seguire Saul vuol dire non andare oltre la sua presenza e il suo campo visivo e uditivo; 4) la cinepresa è la sua compagna e lo affianca in questo inferno. Abbiamo anche scelto di girare in pellicola 35mm e di usare solo procedimenti fotochimici tradizionali nei vari momenti della produzione. Era l’unico modo di mantenere una certa instabilità nelle immagini e quindi essere capaci di filmare quel mondo in modo organico. La sfida era quella di raggiungere il pubblico in termini emotivi, cosa che il digitale non permette. Queste scelte implicano anche un’illuminazione diffusa, la più semplice possibile, un unico obiettivo, il 40mm, e un formato ristretto, il classico 1:1.37, che non allarga il campo visivo come i formati panoramici. Dovevamo restare sempre al livello visivo del protagonista e seguirlo”.
(Il figlio di Saul, pressbook del film)
L’attore protagonista
Nato a Budapest nel 1967, Géza Röhrig rimane orfano a 4 anni e, dopo alcuni anni trascorsi in un orfanotrofio, viene adottato da una famiglia ebraica. Nel 1987 si trasferisce a Cracovia, dove studia letteratura polacca, quindi torna in Ungheria per seguire i corsi di regia all’Università delle Arti Teatrali e Cinematografiche, mentre come attore gira due film, Armelle di András Sólyom (1988) e Eszmélet di József Madaras (1989). Negli anni Novanta vive a Gerusalemme, quindi si sposta a New York, dove pubblica il suo primo libro di poesie e si laurea al Jewish Theological Seminary. Insegnante, poeta e attore, grazie alla sua straordinaria performance ne Il figlio di Saul ottiene ovazioni e recensioni entusiastiche in tutto il mondo.
La critica
“Aveva ragione Jacques Rivette, la vocazione dei film che trattano la Shoah è quella di essere discussi, il rischio quello di essere contestati. Sulla materia esiste un corpo teorico che resiste e non smette di provocare fruttuose controversie: due articoli (De l'abjection di Jacques Rivette e Le travelling de Kapo di Serge Daney) e un film monumentale (Shoah) che hanno articolato ieri la relazione tra l'orrore e la sua rappresentazione, tra la storia dei campi e quella del cinema. La domanda oggi è sempre la stessa, come fare a raccontare un avvenimento che per la sua dimensione e il suo peso di orrore sfida il linguaggio? Come rendere conto dell'universo concentrazionario senza sottostimarne l'orrore?... László Nemes, regista ungherese al suo esordio, prova a rispondere prendendosi il rischio e la responsabilità formale e morale attraverso un film che sceglie il 4:3 come luogo di composizione e di 'ricomposizione' di un corpo. Perché al centro di Son of Saul c'è il cadavere di un ragazzino che un padre vuole sottrarre alla voracità dei forni crematori, un corpo morto tra milioni di corpi morti che Nemes lascia sullo sfondo sfocato e infuocato dalla furia nazista. Le proporzioni del formato, che limitano lo sguardo e fugano la spettacolarità delle immagini, rimarcano il punto di vista del protagonista. Consapevole dell'impossibilità di dire qualcosa di definitivo sull'argomento, l'autore ha coscienza dei vuoti necessari e dei pieni superflui, s'impone dogmi etici ed estetici e prova a resistere dentro un quadro che qualche volta tracima, aprendo ai lati sui predatori, sulla visione piena di luoghi e azioni, sul realismo insopportabile. Negativo de La vita è bella, Son of Saul è un incubo a occhi aperti in cui un padre ha perso la battaglia con la vita ma vuole vincere quella con la morte, ricomponendola con l'assistenza di un rabbino”.
(Marzia Gandolfi, in www.mymovies.it).
“È difficile, se non impossibile, riuscire a comunicare l’orrore, anche se in tanti ci hanno provato e ci sono riusciti, da Eschilo a Dante, da Dostoevskij a Celan. Nemes prova a farlo con una macchina da presa (e pellicola) che insegue il primo piano del protagonista e lascia sullo sfondo, confusa, la visione dell’orrore; con un formato ormai insolito, da cinema del tempo; come fosse un documentario ma con una costruzione drammaturgica studiatissima e una sceneggiatura calcolatissima. Lo spettatore dispone del volto del protagonista, di uno sfondo che raramente ci viene accostato, e segue la sua ossessione narrando allo stesso tempo la vita del lager (Auschwitz-Birkenau, mai nominato) e la costante presenza della violenza e della morte, e nelle pieghe del racconto la preparazione della rivolta dei sonderkommando, destinata alla sconfitta. L’orrore estremo non è, se si è puri, irrappresentabile, ma essere puri è difficile. E se Il figlio di Saul è un film sconvolgente, che non va assolutamente confrontato con le operazioni commerciali degli Spielberg e dei Benigni, pure il dubbio rimane che sia proprio il grande controllo esercitato su questa materia incandescente da un regista nato più di trent’anni dopo la Shoah, a limitare non la sua forza, ma la sua purezza”.
(Goffredo Fofi, in “Internazionale”, gen 2016)
scheda tecnica a cura di Guido Levi
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