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Scheda critica del film:

  

Sangue del mio sangue

Il regista
Nato a Piacenza nel 1939, Marco Bellocchio ha studiato dapprima al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e poi allo Slade School of Art di Londra. Dopo aver realizzato alcuni cortometraggi, ha esordito giovanissimo alla regia con il dissacrante film I pugni in tasca (1965). A cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta si è imposto soprattutto come autore di opere militanti (Nel nome del padre e Sbatti il mostro in prima pagina, 1972, sono le più note). Dopo Salto nel vuoto (1980), premiato a Cannes per la migliore interpretazione maschile e femminile, ed Enrico IV (1984), tratto da Pirandello, ha iniziato una collaborazione con lo psichiatra Massimo Fagioli che però non ha sortito risultati convincenti. Bellocchio ritorna in auge con L’ora di religione (2002), Buongiorno, notte (2003), Il regista di matrimoni (2006), Vincere (2009) e Sangue del mio sangue (2015). Nel 2016 ha realizzato il film Fai bei sogni, in questi giorni in prima visione.

Bellocchio sul film
D.: Maestro, lei ha presentato Sangue del mio sangue come un film "nato così, per caso". Io però non le credo.
R.: Si, "per caso" nel senso che l'occasione è stata il laboratorio di Bobbio, in cui casualmente ho riscoperto le antiche carceri che non vedevo da quando ero bambino, chiuse e abbandonate. E allora lì, casualmente, mi è venuta in mente una storia ispirata alla Monaca di Monza, grande lettura di quando ero liceale, pensando però a un ribaltamento di quella storia. Un ribaltamento che nel film coincide con l'ultima parte, cioè quando il cardinale, convinto che Benedetta si sia convertita in qualche modo, decide di liberarla e scopre che questa donna ha conservato intatta la sua bellezza e la sua giovinezza.

D.: È la vittoria della bellezza contro le atrocità del passato e il buio tragicomico del presente?
R.: Si, più che altro a dimostrazione della vittoria contro la violenza del cardinale. Allora da questo episodio mi piaceva pensare, proprio perché lo vedevo come un punto di partenza affascinante per me e potenzialmente lirico, alla storia della Monaca di Monza, la storia che viene prima e che rappresenta il film stesso. La prigione stessa mi piaceva descriverla anche un po' come l'avevo trovata, abbandonata. E allora mi sono immaginato un personaggio misterioso che la vive anche nel presente, in una Bobbio completamente cambiata, in cui il dominio della Chiesa è stato sostituito da un altro dominio. Questo non è un film per caso...

D.: La Storia e lo spazio (Bobbio come il mondo) sono elementi fondamentali del film. Perché scavare proprio tra le inquisizioni della Chiesa del diciassettesimo secolo per rivelare la farsa del nostro presente?
R.: Sono come due poteri diversi. L'inquisizione, sia pure nel film storicamente fantasiosa e inventata, era comunque una violenza allo stato puro, la violenza di un potere che dominava in assoluto soprattutto in piccole città come Bobbio. Nel presente vi è un altro tipo di potere, che però è alla sua fine, al suo tramonto, e quindi il registro tragico-farsesco mi sembrava decisamente più adatto. Sono due poteri rappresentati in modo molto diverso.
(Matteo De Simei, in www.ondacinema.it)
La critica

Enigmatico, svincolato e sfuggente, Sangue del mio sangue è un film che affronta la Storia e (ancora una volta) la biografia del suo autore attraverso una declinazione libera, una rielaborazione del materiale narrativo sganciata da qualsiasi aderenza o fedeltà. Traslocato di nuovo il suo cinema a Bobbio, estensione di un corpo individuale, familiare e sociale in procinto di esplodere ieri e di 'risolversi' oggi, Marco Bellocchio non è mai pago di sperimentare e di sperimentarsi, andando contro o rivedendo il sé che era. Sangue del mio sangue porta addosso i segni di questo lavoro paziente e faticoso di messa in discussione, sprigionando un'energia abbagliante, una sintesi di rigore, semplicità, essenzialità, movimento, fisica, chimica, storia, filosofia, mistero. Per Bellocchio le immagini veramente vive nascono dal passato dimenticato e trasformato dalla nostra fantasia interna, che combina la vicenda di una monaca 'manzoniana', accusata di stregoneria nell'Italia del '600, con un lutto personale già drammatizzato ne Gli occhi, la bocca, un fratello morto per amore accende il desiderio erotico (e di vendetta) del sopravvissuto. Ambientato in una realtà indeterminata, in cui fluttuano situazioni contemporanee e squarci antichi resi anonimi dalla collocazione notturna ma esaltati da una fotografia che emerge i volti dal buio, Sangue del mio sangue è rapito dalla visione di un movimento e sedotto da una presenza femminile (Lidiya Liberman). Un femminile che ha funzione di anima, di chi, con buona pace dei tribunali inquisitori, può condurre alla luce, fuori dal buio delle costrizioni e degli schemi in cui è imprigionato (idealmente) Federico e viene imprigionata (letteralmente) Benedetta”.
(Marzia Gandolfi, in www.mymovies.it).


Anima gemella, sangue del mio sangue. Fratello. Come potrò perdonarmi la tua assenza, vivere in sua presenza. Cos'è il tempo, se non serve e non basta a guarire il vizio dell'infanzia? Se non chiude le ferite e ti mura vivo. Di quanti abissi parla, e quanto in profondità, questo potente imperfetto magnifico film di Marco Bellocchio, maestro di visioni capaci da sole di dire quel che la parola non può. Un piccolo mondo, il paese natale. Otto minuti di applausi e standing ovation per un piccolo film costato l'essenziale e fatto di pezzi di storie girate dagli allievi del suo laboratorio di cinema a Bobbio. Come in I pugni in tasca, la sala da pranzo è quella, vera, dei ragazzi Bellocchio bambini. Realizzato in tempi diversi, Sangue del mio sangue, eppure compatto. Tutto in uno spazio e un luogo dell'anima che poco a poco si schiude e la famiglia intera- quella di sangue e quella di lavoro - arriva in sostegno, con amore e dedizione, ad aprire la scatola nera dei segreti dell'anima”.
(Concita Di Gregorio, in “La Repubblica”)

“I film di Bellocchio sono rebus audiovisivi. Estremamente articolati. Che rimandano spesso e volentieri a una suggestiva dimensione privata. Specialmente quelli realizzati nel suo ‘posto delle fragole’, Bobbio, in cui la massima concentrazione geografica e autobiografica riflette al contrario implicazioni ad ampio spettro, in chiave collettiva, storica e politica. ‘il mondo è piccolissimo, altro che vasto. Bobbio è il mondo’: parola del vecchio conte Basta, il vampiro, l’ultimo, che ha una certa dimestichezza con l’interminabile e gravoso tempo trascorso, temperata da una profonda, intransigente diffidenza verso lo spazio esterno. Lo dice con cognizione di causa, come personaggio prigioniero di se stesso e in cerca d’autore (all’occorrenza Bellocchio), in sprezzo all’idea di vasto mondo di matrice anderseniana espressa dal fidato e sussiegoso servitore Angelo. Il conte di queste cose se ne intende, in quanto figura chiave di una comunità dell’entroterra piacentino che sopravvive orgogliosa e timorosa dei mutamenti, mentre chiusa in se stessa rimpiange un mondo perduto, che è un po’ quello dell’età feudale, ma anche l’epoca del dominio assoluto della Democrazia cristiana, il cui simbolo, lo scudocrociato, coincide con lo stemma della stessa Bobbio”.
(Anton Giulio Mancino, in “Cineforum”)

scheda tecnica a cura di Guido Levi

 



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