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Scheda critica del film:

  

Roma

 

Il regista

Il regista messicano Alfonso Cuarón nasce il 28 novembre del 1961 a Città del Messico dove vive e studia cinema e filosofia. Inizialmente non si dedica alla carriera dietro la macchina da presa, preferisce studiare come tecnico e lavorare direttamente sul campo. Ma la sua strada, intrisa della filosofia tanto studiata, lo conduce inevitabilmente ad occupare la scomoda sedia da regista, che lo porterà verso la consacrazione hollywoodiana e il riconoscimento internazionale.
Il primo film, Uno per tutte, del 1991, racconta le vicende di un uomo che scopre di aver contratto l’AIDS. L’intensità e la veridicità del racconto inducono il regista americano Sydney Pollack a scritturare Cuarón per alcuni episodi della serie televisiva da lui curata, Fallen Angels.
Il regista comincia così a farsi strada nel mondo delle produzioni americane quattro anni dopo, con La piccola principessa (1995), cui seguirà nel 1998 Paradiso perduto con Gwyneth Paltrow, Ethan Hawke e Robert De Niro, nell’adattamento cinematografico dell’opera “Great Expectations” di Charles Dickens. Passano due anni e arriva una nuova commedia ironicamente provocatoria sul sesso con Y tu mamà tambien.
Nel 2003, sua la regia del terzo capitolo dell'epica saga "Harry Potter”. Cambia totalmente genere, e forse dalle generazioni più giovani viene ricordato principalmente per questo, quando la Warner Bros Entertainment gli affida la regia del terzo capitolo di una saga epica: Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2003) è forse l’adattamento cinematografico più riuscito di tutta l’epopea del maghetto con gli occhiali. La scrittrice stessa, Joanne Kathleen Rowling, ha dichiarato che Cuarón è riuscito a trasmettere in maniera chiara il passaggio dalla vita fanciullesca a quella caotica ed adolescenziale dei protagonisti. Nel 2005 dirige l’episodio Par Monceau in Paris, je taime e nel 2006 torna ad una trasposizione da libro a film con I figli degli uomini, tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice P.D. James, trascinando il lettore/spettatore in un apocalittico futuro alla Blade Runner.
Dopo 5 anni di lavorazione, nel 2013 presenta al pubblico quello che da tutta la critica è considerato il suo capolavoro: Gravity, film fantascientifico ambientato nello spazio, con protagonisti George Clooney e Sandra Bullock, che racconta la storia di sopravvivenza di due astronauti alla deriva nell'orbita terrestre.
La pellicola, che ha aperto la 70° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, ha stupito per la perfezione formale, possibile grazie alla scoperta di una tecnologia capace di riprodurre fedelmente la totale mancanza di gravità.

Maschile/Femminile
In un bianco e nero pastoso che mescola ricordi nostalgici e denuncia sociale, con Roma Cuaron torna alle proprie radici e racconta il Messico della sua infanzia, nonché il debito di riconoscenza che tutti i figli della borghesia messicana devono alle tate e alle "sguattere" che li hanno cresciuti con amore e devozione. Roma è il suo film più intensamente personale e più provocatoriamente politico, e racconta un intero Paese attraverso il suo frattale minimo, e il più indifeso. […] Cleo è donna: e questo la rende il paria della terra, inferiore persino a quegli uomini nullatenenti che le ronzano intorno, e che imbottigliano energia vitale per la rivoluzione a venire, ma dimenticano la più elementare decenza nei confronti delle proprie compagne. Il ritratto che Cuaron fa di un maschile distruttivo e irresponsabile, contrapposto ad un femminile accuditivo e aperto al cambiamento, collega Roma a Gravity nella convinzione che il futuro sia donna. In questo mondo in trasformazione (ma non necessariamente direzionato verso un reale progresso) terremoti e incendi cercano di spazzare via il vecchio, mentre i latifondisti imbalsamano le proprie prede e i propri compagni di caccia affinché tutto rimanga uguale, e il loro privilegio resti immutato. Cleo calpesta il fango delle baraccopoli come le maioliche delle case dei ricchi, e continua a dare a piene mani lasciandosi depauperare ogni giorno, e augurandosi silenziosamente la morte per sé e per la sua stirpe (soprattutto se femminile). Ma il miracolo di Roma è trasformare la sua storia nel ritratto di una dignità umana così profonda e inalienabile da metamorfizzare ogni cosa in straziante bellezza.
Cuaron applica la propria consumata maestria tecnica e compositiva ad una storia girata in sequenza in 108 giorni, e interpretata da non attori di rara autenticità. La sequenza su cui scorrono i titoli di testa è già un capolavoro ed enuclea tutta la narrazione a seguire: nello specchio della lisciva con cui Cleo pulisce i pavimenti appare il riflesso dell'aeroplano che porterà via chi può dalla quotidianità degradata del quartiere.
(Paola Casella, mymovies.it)

Personale messicana
Roma non è di certo “La ballata del vecchio marinaio,” ma è un film pieno d’acqua, dall’inizio alla fine. L’acqua che la protagonista Cleo, domestica di una famiglia borghese nella Citta del Messico del 1971, utilizza per lavare pavimenti, piatti, abiti. Che dà da bere ai bambini assetati. Acqua, o meglio “le acque” che le si rompono al termine di una gravidanza, nel momento più tumultuoso della storia del film e del Messico, e le acque del mare delle scene finali, prima di tornare ai panni, ai tetti, ai cieli, agli aerei che passano e vanno chissà dove. Acqua che scorre e lava via lo sporco, acqua dalla quale ci si deve salvare, ma che allo stesso tempo è vita. Nuovi parti dal mare che sostituiscono le disgrazie, nel metaforone messo in scena da Alfonso Cuarón, che la sua macchina da presa la muove agile e liquida attorno ai suoi tanti personaggi, dentro alle scenografie che ricostruiscono quegli anni in maniera sontuosa, precisissima e perfino sovrabbondante e ossessiva, cercando di arginare almeno il trasporto del sentimento di questo suo personalissimo, castissimo e scolastico Amarcord.
Attinge ai suoi ricordi personali, il regista messicano. Poco importa andare a vedere e soppesare quanta autobiografia ci sia, e quanto romanzata, e quanto idealizzata. Importa di più sottolinearne la scissione, la voglia di fare e di dire da un lato, e quella di trattenere il fiume in piena del ricordo e della passione attraverso lo studio maniacale della messa in scena, tradito dai virtuosismi di macchina e da una fotografia quasi troppo perfetta, troppo patinata, per la storia che viene raccontata, e dall’onnipresenza di suoni, voci, rumori.
Racconta di qualcosa che sta finendo, che muore, che viene danneggiato e che nasce in una forma nuova, Roma. Racconta della fine e del nuovo inizio di una famiglia, forse di un paese, sicuramente di una giovane donna che si ritrova proiettata nella vita, ci si scontra in pieno ma si salva salvando gli altri, aiutandoli, anche quando forse non se lo meritano. Tra cani vivi e impagliati, vecchie Ford Galaxy e i cinema di una volta, con dentro Tre uomini in fuga e Abbandonati nello spazio, che vorresti continuare a vedere più di quanto Cuarón non conceda.
(Federico Gironi, comingsoon.it)

 

INTERVISTA A ALFONSO CUARON
A tratti, in Roma, la storia traspare prepotente, dal divario tra ricchi e poveri, tra bianchi e indios, tra messicani e gringos, alle contestazioni studentesche dei primi anni '70 represse nel sangue dal governo, ma gli eventi globali restano sullo sfondo di una vicenda familiare fatta di piccole cose, di gesti quotidiani, di relazioni sentimentali. A spiccare è soprattutto una delle due tate, l'introversa Cleo, mostrata sul lavoro e nel privato. Cuarón puntualizza: "Cleo è basata su un personaggio reale, Lio. Lei è stata la mia tata quando ero piccolo, faceva parte della famiglia. Per me l'aspetto essenziale di questo film è che il punto di partenza è il processo legato alla memoria. Ho costruito il personaggio di Cleo grazie alle conversazioni avute con Lio. Quando cresci con qualcuno che ami, non metti in discussione la sua identità. Mi sono forzato cercando di vedere Cleo come una donna, per me era come mia mamma”.

Sono tanti gli elementi che distinguono Roma dalla produzione più mainstream di Alfonso Cuarón. L'uso del bianco e nero, il ritmo lento, il mix linguistico di spagnolo e mixteco, lingua che le due governanti parlano tra di loro. Su questi aspetti Cuarón è perentorio: "C'erano tre elementi che fin dall'inizio erano alla base di questo progetto, il personaggio di Cleo, l'uso del bianco e nero e la memoria. La memoria è soggettiva, ma io volevo costruire una memoria oggettiva basata sull'immagine. Mi interessava osservare quei momenti con una certa distanza, senza giudicare, lasciando che la telecamera non si intromettesse nel momento. Ho rispettato il tempo reale, come nella scena iniziale, quando l'acqua scivola sul pavimento”.

Oltre a scrivere e dirigere e produrre, come suo consueto, in Roma Alfonso Cuarón si è occupato anche della fotografia e del montaggio. Vista la centralità dell'aspetto visivo, è interessante capire questa sua scelta nata, di fatto, come un ripiego: "Ho cominciato a preparare il film con Emmanuel Lubezki. L'idea era che lo girasse lui, ne abbiamo parlato a lungo. Nel budget era prevista una post-produzione di un certo tipo, poi la produzione è andata avanti, ma Emmanuel era impegnato. Ho pensato ad altri direttori della fotografia, ma erano tutti stranieri e non volevo imporre l'inglese in un film come questo. Allora Emmanuel mi ha detto ' Falla tu', così mi sono fatto aiutare da un team di talento". Parlando della scelta del bianco e nero, il regista aggiunge: "Ho ricostruito l'ambientazione anni '70, ma usando un bianco e nero digitale. Ho scelto di parlare del passato con un formato digitale molto avanzato”.

Il risultato è un incredibile viaggio nella memoria, personale e storica, della durata di 135 minuti che non ha lasciato indifferente per primo il suo autore. "È inevitabile, se stai ricostruendo il passato in una casa che è simile alla tua, con un cast identico alle persone reali della tua vita di 50 anni fa, nella tua testa succedono un sacco di cose. Ma questo faceva parte del processo. Il presente e il passato collidono. Ti avvicini ai ricordi, ma lo devi fare senza giudicare". E a proposito di giudizi, Alfonso Cuarón chiede di non giudicare la sua scelta di distribuire Roma su Netflix. Il motivo è molto chiaro, come sottolinea lui stesso: "Conosciamo la complessità della situazione produttiva e distributiva. Un film in spagnolo e in lingua indigena, in bianco e nero, un dramma e non un film di genere, ha difficoltà a trovare spazi. Le condizioni ideali sarebbero vederlo sul grande schermo, ma è importante che il film abbia un certo impatto in modo da sopravvivere al tempo. Quando è l'ultima volta che avete visto un film di Antonioni al cinema? E in tv? Alla fine i film vivono nel formato home video, ma questo non vuol dire che le due forme di distribuzione debbano contrapporsi".

(Valentina D’Amico - movieplayer.it, 30/8/2018)

scheda tecnica a cura di Mathias Balbi




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