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Scheda critica del film:

  

Jackie

 

 

Il Regista
Pablo Larraín nasce a Santiago del Cile il 19 Agosto del 1976. Dopo aver terminato la scuola, ha studiato comunicazione audiovisiva all'Università UNIACC. È membro fondatore di "Fabula", una compagnia di produzione cinematografica, televisiva e pubblicitaria. Nel 2005 ha diretto il suo primo film,Fuga, uscito in Cile a marzo del 2006. Nel 2007 dirige il suo secondo film, Tony Manero, da una sceneggiatura scritta insieme ad Alfredo Castro e  Mateo Iribarren. Il film girato nell'ottobre del 2007 è stato presentato in anteprima alla Quinzaine des Realisateurs nel maggio del 2008 e ha vinto la ventiseiesima edizione del Torino Film Festival. Sempre a Torino l'attore protagonista Alfredo Castro ha ricevuto il premio quale miglior attore. Tony Manero è stato candidato all'Oscar quale miglior film straniero. Post Mortem è il suo terzo film.
Del 2012 è invece No - I giorni dell'arcobaleno, in cui racconta una delle svolte cruciali della storia del suo Paese: la fine della dittatura di Pinochet in Cile.
Con Il Club (2016) racconta la storia di una suora e quattro preti relegati a vivere in una piccola casa di Boca del Infierno, sulla costa cilena, poiché, ciascuno a suo modo, ha profanato la sacralità della vita.
Nel 2016 presenta a Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs Neruda, rileggendo una figura leggendaria del Cile che spese la sua vita a lavorare per la giustizia sociale nel cuore di un'America Latina divorata dalla corruzione e abbattuta dai colpi di Stato. Lo stesso anno vince il premio per la migliore sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia con Jackie .

PABLO LARRAÍN sul FILM

Tutti conosciamo la storia dell'assassinio di John F. Kennedy. Ma cosa succede se spostiamo la nostra attenzione su di lei?
Come saranno stati i giorni successivi per lei, annegata nel dolore, i figli lontani, gli occhi di tutto il mondo puntati addosso?
Jackie era una regina senza corona, che perse in un colpo solo trono e marito.
Donna piena di stile, desiderabile, sofisticata, Jacqueline Kennedy è stata una delle donne più fotografate e presenti nella cronaca del XX° secolo. Eppure sappiamo poco di lei. Estremamente discreta e imperscrutabile, è forse la donna famosa meno conosciuta dell'era moderna.
Mi piace pensare che non avremo mai certezze su di lei. Non conosceremo mai il suo profumo, o che luce avesse negli occhi quando la incontravi. Tutto ciò che possiamo fare è cercare. E mettere insieme un film fatto di frammenti. Brandelli di ricordi. Luoghi. Idee. Immagini. Persone.
Il Presidente Kennedy morì giovane – il tempo in cui rimase in carica venne interrotto bruscamente, i pochi successi conseguiti rischiavano di essere presto dimenticati.
Persino mentre era offuscata dal dolore della perdita, Jacqueline Kennedy
sapeva che qualcuno avrebbe dovuto portare a compimento la sua storia. Nel corso di pochissimi giorni riuscì a trasformare suo marito in una leggenda. Definì la sua immagine e rafforzò quella che sarebbe stata la sua eredità politica.
E facendo questo divenne lei stessa un'icona, conosciuta per sempre in tutto il mondo con il solo nome di battesimo... Jackie.

Il potere dell’immaginazione
Tra la verità e la favola c'è Jackie. Isolata in una giornata
d'autunno, dopo l'assassinio del consorte e prima del ritiro dalla vita pubblica.
 L'incertezza è il fondamento stesso di 'Jackie'. È quanto
serve di base a una straordinaria creazione di finzione che Larraín consacra alla relazione intercorrente tra 'corpo' e 'abito'.
Perché Jackie seppe esprimere come nessun'altra i messaggi inibiti dalla
parola, trasformando la Casa Bianca in una 'maison' di stile e di glamour,
appropriandosi dei media dell'epoca, radio e televisione, intuendo l'importanza di un abito nella figurazione della propria identità e del proprio ruolo sociale, veicolando la politica del consorte e soffiando un vento nuovo sulla residenza presidenziale. È questa attenzione al dettaglio, la vocazione a non lasciare nulla al caso, tantomeno la cerimonia funebre del marito, a rendere penosa la sequenza del trasloco, a rendere intollerabile agli occhi ardenti di Jackie lo scampolo dozzinale che stringe tra le mani la moglie di Lyndon B. Johnson, nuova first lady subentrata traumaticamente a Jackie. Ritaglio di tessuto che ripiomba la Casa Bianca nella medietà e lontano da quel tempo dorato che Jackie prepotentemente riflette, vestendo e svestendo abiti in un incredibile 'valzer' che pesca il suo movimento nel musical ("Camelot") e lascia in archivio il corpus fotografico che le ha cucito addosso un capitolo della storia americana.
Il giorno più lungo dell'America per Larraín passa allora sotto la gonna di Jackie Kennedy che convinse il popolo americano a finanziare il suo grande progetto di restaurazione della Casa Bianca facendo appello dalle telecamere televisive. Lo convinse con un sorriso, lo stesso con cui (ri)scrive sul taccuino di Theodore H. White una favola di dame e cavalieri allunati come gli eroi dell'Ariosto. Larraín mette in scena il potere dell'immaginazione di una donna col suo gusto abituale per il paradosso, combinando l'immagine di una ricostruzione storica con l'immagine di una rappresentazione privata delle stazioni di un lutto. Lo scarto plastico e di tessitura sono il riflesso degli accomodamenti (etici ed estetici) della più grande ambasciatrice d'America, paradigma esemplare per esplorare la complessità dell'iconografia culturale.
(Marzia Gandolfi - www.mymovies.it)

Glamour e acciaio così la first lady costruì il mito
Delle migliaia di ritratti ormai sfuocati che in passato, attraverso la cronaca, le fotografie, la televisione, i pettegolezzi, le biografie e i film, testimoniarono, esaltarono o sminuirono la vita della donna
allora più mediatizzata, quello che immagina, tanti decenni dopo, il regista cileno Pablo Larraìn, è forse il meno biografico, forse il meno realistico, ma certo il più intimo, misterioso e geniale. Soprattutto perché arriva oggi, in un mondo irriconoscibile e nell'America di Donald Trump e della sua bella e opaca consorte. La memoria di tempi anche allora terribili (Cuba, il primo Vietnam, le battaglie per la richiesta dei diritti civili degli afroamericani, che solo Johnson riuscirà a ottenere), ma pieni di speranze oggi perdute, si concentra nell'ostinazione di una giovane vedova e madre straziata, a voler salvare, anzi creare, il mito di quei mille giorni di regno, del marito presidente e quindi di lei stessa, sua moglie. È una grande intuizione che la granitica bravura di Natalie Portman rende convincente e commovente: della vera Jacke è riuscita a imitare, dicono gli esperti, la vocetta da Minnie Mouse, gli impeccabili modi pubblici, l'eleganza che segnò una generazione di donne. Ma ha saputo soprattutto creare la Jackie segreta, ideata da sceneggiatore e regista, nei tre giorni che andarono da Dallas ad Arlington, dove Kennedy fu sepolto il 25novembre. Le immagini vanno e vengono nel tempo intrecciandosi lucidamente, dal concerto alla Casa Bianca di Pablo Casals al famoso documentario in cui nel 1961 lei presentò al pubblico la residenza presidenziale con i cambiamenti apportati, al momento in cui dice ai bambini, il piccolo John e Caroline (due li aveva persi alla nascita), che il papà non c'è più. Bob Kennedy le è a fianco, ma lei non ha bisogno di protezione o di impossibile consolazione, ha bisogno di capire, di decidere. Ci sono cinemomenti che non si dimenticano; la frettolosa nomina a nuovo presidente del vice presidente Johnson sull'Air Force One, accanto alla bara di Jack e lei è chiamata a partecipare; il vuoto che subito le si crea attorno; l'impazienza cli Johnson perché subito la first lady ex da poche ore liberi la Casa Bianca delle poche cose che può portare con sé, mentre la signora Johnson già sta scegliendo i tessuti per cambiare i divani; la passeggiata solitaria nelle stanze dove ha vissuto i tre anni della presidenza Kennedy, con in una mano un bicchiere di bourbon e nell'altra l'immancabile sigaretta, sola mentre da un disco Richard Burton canticchia Camelot che, secondo la leggenda era il musical preferito dalla famiglia. Ma il compito cui Jackie-Natalie dedica se stessa è impedire che la faccenda funebre sia liquidata come un triste evento privato, per paura di un atto di terrorismo. Come fu il funerale di Lincoln pure lui assassinato? Epico, grandioso, e lei farà in modo che quello di suo marito sia ancora più sontuoso, e seguito nella nuova mondovisione in ogni angolo della terra. Ce le ricordiamo le foto e le riprese d'epoca della vedova col viso nascosto da un spesso velo nero, i suoi due piccini dal cappottino azzurro per mano, che segue la bara sino al Campidoglio: e poi al funerale di Stato, vinta la sua battaglia per seguire il feretro a piedi, 103 capi di stato dietro di lei. Nel film sarà lei, Jackie, a imporre al giornalista le sue condizioni, perché i fatti diventino Storia e mito.
(Natalia Aspesi, La Repubblica, 20 febbraio 2017 )

La protagonista accosta il marito alla figura di Lincoln, presidente assassinato anch'egli durante il proprio mandato: si aggrappa al mito di Lincoln per mitizzare a sua volta il marito e trovare un terreno solido mentre tutto le si sfalda sotto i piedi. Sa benissimo che l'edificazione del mito non potrà che essere l'ennesima messa in scena, favorita dal contesto mediatico di cui si avvale con abilità e consapevolezza. Nella stratificazione dei diversi piani temporali di cui si compone il film, uno di questi è costituito dalla trasmissione televisiva in b/n (in parte ricostruita) in cui la first lady presentò ai cittadini la Casa Bianca, illustrandone le innovazioni effettuate. Fu un modo di aprire democraticamente al popolo il palazzo del potere, ma anche di renderlo a sé più familiare grazie alle potenzialità reificanti del medium televisivo.
Jackie è profondamente sola. A parte i figli piccoli, non ha nessuno.
Nell'affettuosa vicinanza del cognato Bob Kennedy (Peter Sarsgaard) si avverte l'assenza di un legame di sangue, che amplifica il senso di solitudine. Jackie è sola rispetto alla famiglia Kennedy con cui non mancano divergenze, sola verso il nuovo arrogante presidente Johnson, sola verso chi per motivi di sicurezza le raccomanda di evitare di ispirarsi alle solenni esequie di Lincoln per l'organizzazione dei funerali del marito. La solitudine è il prezzo del potere su cui son state scritte fior di tragedie: ma qui Larraín la declina al femminile, con inusuale delicatezza e sfumature insolite per il suo cinema, che si fa meno cinico, ma non meno lucido e sempre più sottilmente feroce.

"Credete di poter controllare tutto, ma gli hanno sparato in carcere!" sbotta
Jackie con Bob Kennedy quando scopre che le è stato tenuto nascosto
l'assassinio di Lee H. Oswald, il sospetto assassino del marito. Complotti, trame segrete e mai chiarite. Scorgiamo in filigrana la "grande ipocrisia del potere" in cui Jackie è presa in trappola e smarrita. L'unica risposta è procedere all'edificazione del mito: raccontare al mondo una favola per coprire le ombre, facendosi in definitiva attrice della stessa grande ipocrisia che ha messo lei sotto scacco. Nella democrazia già mediatizzata dei primi anni 60, la mitologia che Jackie edifica si appresta ad accompagnarsi al mistero su cui riposa ancora oggi la versione ufficiale dell'assassinio di JFK: uno shock che rappresentò una perdita di verginità per l'America appena uscita dall'idillio degli anni 50.

Alla fine, si torna a Camelot con le parole di Jackie: "La gente ama le favole. E le favole finiscono per diventare più reali delle persone che si hanno al proprio fianco". Jackie si aggira sola per i viali della città, e scorge alcuni manichini che stanno per essere sistemati in una boutique. L'acconciatura di quei manichini è la sua; gli abiti che indossano sono i capi di alta moda che lei ha reso popolari. Jackie si vede già diventata un manichino. Un quadro su un muro, come ha detto del marito. Così Larraín si appresta a chiudere il suo ritratto, ennesima variazione sul tema dell'inestricabilità della realtà dalla sua rappresentazione, e della definitiva impossibilità di evitare di essere stritolati dai propri miti e dalle proprie ideologie.
(Stefano Santoli, ondacinema.it,)

scheda tecnica a cura di Stefano Bona

 



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