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Scheda critica del film:

  

Cosa dirà la gente

(log kya kahenge)

La regista
Iram Haq attrice e regista nasce a Oslo (Norvegia) nel 1976 da genitori pachistani e studia alla Westerdals School of Communication di Oslo. Appassionata di cinema fin dall’infanzia - come ha avuto occasione di raccontare - avendo la famiglia limitate risorse economiche frequenta la biblioteca di Oslo dove può leggere gratuitamente e sognare di scrivere e raccontare storie. Quando è riuscita a realizzare il sogno, si è ispirata a storie e temi che hanno direttamente o indirettamente segnato la sua vita e caratterizzato la società e la comunità che la circondano: controllo familiare e sociale, integrazione e rapporti tra culture diverse e soprattutto il bisogno di libertà a ogni livello. Sono i temi che caratterizzano la sua opera fino dal debutto a Venezia nel 2004 nella sezione dedicata ai ‘corti’ con Little Misse Eyeflap (storia di una giovane norvegese di origini pachistane che sfugge a un matrimonio forzato) e che connotano sia il lungometraggio d’esordio I’m Yours (2013, candidato dalla Norvegia all’Oscar per il miglior film straniero) in cui racconta il tormentato rapporto con la madre di una ragazza di origine pachistana con un figlio di sei anni e la difficoltà di realizzare il sogno di formare una famiglia, sia il suo secondo lungometraggio Cosa dirà la gente.

Il commento
“Cosa dirà la gente” è il mantra dietro cui si trincera chi sceglie di farsi dettare i propri comportamenti dal conformismo sociale piuttosto che dalla libertà di pensiero, mantra usato come una clava contro chi osa agire secondo proprie scelte. Il bel film di Iram Haq tratta di una comunità d’immigrati pachistani profondamente condizionati dalle tradizioni della propria terra e cultura, chiusure analoghe peraltro esistono in ogni società e in ogni Paese quando la tradizione è intesa non come un insieme di valori da conservare adeguandoli all’evoluzione del pensiero e del comune sentire, ma come un complesso dogmatico di regole immutabili nel tempo e nello spazio. Per fortuna dell’umanità costoro hanno sempre perso le loro guerre di retroguardia, altrimenti saremmo ancora all’età della pietra. È evidente che l’immigrazione nei Paesi europei (in particolare in quelli a più alto tenore di vita) proveniente da regioni povere o vittime di guerre continue (più o meno note) ha evidenziato il contrasto tra culture diverse, contrasto che rende più difficoltosi processi d’integrazione problematici anche quando esistono radici comuni tra le parti: si pensi a quanto è stato lungo il percorso di assimilazione tra nord e sud del nostro Paese. Integrarsi peraltro non significa solo rispettare le leggi della Nazione ospitante, ma anche accettare che membri della comunità immigrata scelgano liberamente di vivere secondo la cultura locale: è la complessa problematica degli immigrati di seconda generazione spesso alla ricerca di una loro identità. Nisha (la protagonista splendidamente interpretata dall’esordiente Maria Mozhdah cui basta lo sguardo per evidenziare sentimenti che vanno dall’amore, alla gioia alla disperazione) figlia di immigrati pachistani che lavorando duramente e seriamente si sono ben inseriti a Oslo (la comunità pachistana in Norvegia è una delle più antiche e numerose in Europa) ha scelto di vivere secondo la cultura dei suoi amici e compagni di studi, ma consapevole del tradizionalismo della sua famiglia (non solo del fratello che inconsciamente difende i privilegi del maschio e della madre bigotta, ma anche del padre apparentemente più liberal) tenta di lasciare la propria scelta fuori dall’uscio di casa. Non si pensi che il caso di Nisha sia isolato o un’invenzione: a parte il fatto che Nisha riflette sullo schermo l’analoga esperienza di cui è rimasta vittima a 14 anni la regista (rapita dai genitori alla protezione sociale norvegese e spedita in Pakistan a rieducarsi) è la cronaca (anche nel nostro Paese con la recente tragedia di Sana, rapita dai genitori a Brescia e trovata assassinata in Pakistan) a testimoniare che quanto descritto non è un’invenzione. Molte sono le riflessioni suggerite da Cosa dirà la gente: la famiglia è musulmana ma non è la religione a determinare l’atteggiamento repressivo (Nisha appena giunta in Pakistan dichiara che non prega, annuncio che non crea nessuna reazione nella famiglia) dovuto invece a problematiche sociali. La ribellione di Nisha (rifiuta anche lo sposo scelto per lei) non deve essere di esempio alle altre ragazze e mettere in discussione il potere dei maschi e una struttura patriarcale. Interessante il comportamento delle madri e delle donne anziane (e lo vediamo anche nelle cronache-politico sociali del mondo islamico e di altre religioni orientali): sono spesso più accanite dei mariti a difendere le regole della tradizione, quasi che non vogliano che figlie e nipoti godano di libertà e diritti di cui sono state private. Emblematica la scena in cui Nisha vede in skype il volto del marito scelto per lei e la madre le ingiunge di non lamentarsi perché lei quella fortuna non l’ha avuta (e qui si evidenzia la contraddizione di chi accetta e usa le nuove tecnologie e non la cultura che le ha originate). Occorre infine riconoscere alla regista di aver trattato una problematica delicatissima (anche per i riflessi personali) con estrema maturità ed equilibrio: non un pamphlet ma una pagina carica di umanità e anche di comprensione per il padre (con cui peraltro per molti anni non ha avuto rapporti) dilaniato tra l’amore per la figlia e la tradizione di cui non riesce nemmeno a immaginare di liberarsi.

scheda tecnica a cura di Salvatore Maria Longo
 



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