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Scheda critica del film:

  

Fuocoammare

Il regista
Nato ad Asmara nel 1964,  con nazionalità italiana e americana, nell'85 si trasferisce a New York dove studia alla New York University Film School. Il suo primo ediometraggio, Boatman, risale al 1993 e viene presentato in vari festival internazionali. In seguito presenta alla Mostra del Cinema di Venezia Afterwords, nel 2001, e Below Sea Level, nel 2008, che si aggiudica i premi Orizzonti e Doc/It. Il film vince anche il premio come miglior documentario al Bellaria Film Festival, i Grand Prix e il Prix des Jeunes al Cinéma du Réel del 2009, il premio per il miglior film al One World Film Festival di Praga, il Premio Vittorio De Seta al Bif&st 2009 per il miglior documentario ed è nominato come miglior documentario all'European Film Awards 2009.
Del 2010 è invece il lungometraggio El sicario - Room 164, film-intervista su un sicario messicano che vince diversi premi. Dirige inoltre varie pubblicità progresso, ma il successo vero e proprio arriva nel 2013, quando il suo documentario Sacro GRA, che racconta vite difficili intorno al Grande Raccordo Anulare di Roma, vince il il Leone d'oro al miglior film alla 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Torna in sala nel 2016 con Fuocoammare, documentario in cui descrive le contraddizioni del popolo di Lampedusa., vincendo il Leone d’oro al Festival di Berlino.

Il regista sul film
Fuocoammare è stato accolto subito come un film politico. Lo era fin dal progetto?
Inizialmente dovevo fare un instant movie che desse di Lampedusa un'immagine più vera, lontana dall'eco mediatica. Ma poi ho trovato un mondo complesso da raccontare. La mia non è un'inchiesta politica, ma è vero che la cronaca impone nuovi ragionamenti: non possiamo lasciare che il Mediterraneo diventi la tomba di chi fugge da guerre, fame e disperazione.
Cosa risponde a chi ripete che l'Europa non può accogliere tutti, che deve chiudere le frontiere?
Dico che è inutile alzare barriere, nella storia i muri non hanno mai resistito. Chi scappa dalla disperazione e dalla morte non ha altra scelta, e non si fermerà. Come quelli che si lanciavano dalle Torri Gemelle in fiamme, nel 2001. Un profugo mi ha detto: "Anche se ti dicono "potresti morire in mare", finché c'è un "potresti" tu parti".
 Lei che cosa si augura?
Che i politici affrontino l'emergenza, che si tenga un summit come quello recente dell'Onu per il clima a Parigi. Che si creino corridoi umanitari, si pensino soluzioni per fermare le guerre. Altrimenti i profughi saranno sempre di più, passeranno da tre a 30 milioni. 
A Lampedusa sembrano tutti solidali, non ha registrato insofferenze o proteste?
Come dice il medico, Pietro Bartolo, è un'isola di pescatori e tutto quello che viene dal mare è benvenuto. I lampedusani sono speciali. Pensi che ho affittato lì una casa per girare Fuocoammare e non riesco a lasciarla.
C'è chi, vedendo il film, l'ha accusata di pornografia del dolore.
Qualcuno che urla c'è sempre, ma era una voce fra gli applausi. Nessuno dovrebbe mai filmare la morte, ma se c'è una tragedia ignorata io sento il dovere morale di farlo. Ho immagini ancora più forti di quelle usate nel film, ho dentro di me scene indimenticabili. D'altronde è la mattanza che non dovrebbe esserci, non io. 

Note critiche

.."Come in Sacro GRA, però, le coordinate di un luogo a Gianfranco Rosi servono per descrivere una condizione, nulla o poco avendo a che fare con la geografia in senso stretto. Anche qui, a posteriori, non possiamo dire di saperne di più su quel luogo; ma anche qui, come in quella collezione di storie sul raccordo anulare, veniamo a saperne qualcosa su coloro che popolano certi luoghi. A Lampedusa, per esempio, è pressoché "naturale" immaginare una situazione di emergenza permanente; sì, magari a qualcuno non sfugge che nei tre mesi estivi il turismo cammina o che Claudio Baglioni possiede da anni una lussuosa villa che dà sul Mediterraneo. L'argomento immigrazione dall'Africa è però talmente caldo che è giusto un attimo arduo immaginare qualcosa di diverso da uno scenario funereo.
Fattispecie che non viene però del tutto accantonata. In uno dei rari momenti, forse l'unico, in cui uno dei personaggi si rivolge direttamente alla persona dietro la macchina da presa, costui è il dottore che si occupa di verificare lo stato di salute delle persone recuperate dai barconi, così come delle autopsie sui cadaveri. Ecco, c'è la solitudine, l'umanità persino, di chi ha accettato lo status quo senza darsi però ad alcuna lamentosa rassegnazione. C'è la compostezza, il senso del dovere, il rispetto, la misericordia, ossia la civiltà. Se certi sentimenti e valori fossero maggiormente diffusi, più radicati come lo sono in questo affabile dottore, allora si potrebbe addirittura credere a quella favola bellissima, se non addirittura necessaria, dell'integrazione.Samuele, non solo per via della giovane età, rappresenta invece lo stadio precedente, un'umanità più pura, dunque disordinata, maldestra, ma ad ogni modo amabile. Ci pare di avere individuato in loro due, Samuele e il dottore, la chiave di lettura più interessante di Fuocoammare, aiutati in questo da un esilarante siparietto tra i due. C'è una verità meno artificiosa del seppur brillante Sacro GRA, che traspare da come parlano, come gesticolano, come si muovono e che, unite alle immagini dei tanti immigrati che sbarcano sull'isola, generano pensieri interessanti. Samuele ed il dottore sono persone, la gente sui barconi no. Quest'ultimi sono carne, vittime non semplicemente di guerra, ma soprattutto di sogni e desideri che non esistono o che non sono affatto preparati a perseguire.
Antonio Maria Abate, Cineblog


Lo spettacolo del dolore, la sua immagine, per lo spettatore è sempre un problema, e un'immagine che si dice falsa, trattata, manipolata, lo afferma chiaramente, consapevolmente. Per questo la cosa che rifiutiamo fermamente, di Fuocoammare, è proprio lo spettatore che Rosi costruisce: uno spettatore che non è trascinato in un'ipotesi di compassione fuori canone, in una impossibile condivisione spinta dalla ricerca estetica fuori dai soliti riti della compassione cinematografica (come in Costa o George), e che nemmeno è invitato a riflettere sul come le nostre immagini rappresentano gli ultimi (come in Gavras e persino Guadagnino), ma è lì per riconoscere la sagacia dell'allegoria al lavoro (Samuele che impara a guardare siamo noi che dobbiamo esercitare l'occhio pigro verso i migranti, il suo astio ingiustificato e non-pensante verso uccelli e piante grasse è un pregiudizio istintivo che si risolve nel dialogo fiabesco con un passerotto, lo stomaco da farsi sul molo è un invito al dialogo con un principio di realtà, le lezioni d'inglese una prova per un'idea multiculturale e via elencando), è lì a unire e a cercare un senso ai segni che Rosi fa circolare, a cogliere la poesia e le rime che l'autore suggerisce (le salme dei migranti stese a terra e un interno lampedusano con una signora che sistema un letto, le onde radio su cui viaggiano sia le richieste di soccorso sia i canti popolari, l'occhio rosso di un pesce appena pescato e la lacrima sporca di sangue del migrante...). Rosi tiene insieme frammenti di reale che, seppur vicinissimi, non è detto siano in dialogo, ed è questo il fine ultimo di Fuocoammare: ma quel che noi vediamo, prima di tutto, è il rimario borioso, l'intreccio di rimandi mirabilmente intessuto, un intreccio che non dice nulla del mondo (lo scontro di opposti non crea automaticamente pensiero complesso), ma lo chiude in un gesto poetico. Fuocoammare è un film che non chiede allo spettatore di porsi problemi sul suo ruolo. Lo spettatore è ridotto a vigile urbano nel traffico dei segni, a certificatore dell'atto autoriale. Non c'è segnale di messa in discussione, richiesta di verifica, crisi possibile. Rosi è un signor regista, qui ci son le prove, urlate a ogni piè sospinto: non è questione di estetizzare il reale, ma di soverchiarlo
Giulio Sangiorgio Gli Spietati

 Nel film la tragedia affiora potente in sequenze brevi: il rap di un profugo nigeriano “il deserto, la prigione, gli stenti, il mare non ci hanno fermato”, il racconto del medico locale, Pietro Bartolo, che visita gli abitanti e soccorre gli immigrati ormai da vent’anni. Con voce pacata testimonia l’orrore, i cadaveri nelle stive morti soffocati, le unghie spezzate per cercare di rompere le paratie e respirare. Ma anche lo spirito di solidarietà dei lampedusani «popolo di mare abituato a accogliere tutto quel che arriva dal mare. Non si sono mai stancati di aiutare. Una notte arrivò una donna in procinto di partorire. Stava male, la operai in ambulatorio. Fuori trovai cinquanta isolane con vestiti e pannolini. La bimba è stata chiamata “Gift”, dono. Lo è stato per tutti noi»
Arianna Finos La Repubblica


Samuele ha 12 anni, e non sa mangiare gli spaghetti senza risucchiarli facendo rumore: accanto a lui, né il padre né la nonna, che pure paiono persone a modo, sembrano mettere in discussione questa abitudine. Concedetemi questo inizio eccentrico, per parlare di un film, Fuocoammare, che tocca tasti gravi e dolenti del nostro presente; si tratta di una sequenza che però è indicativa del tasso di messa in scena adottato dal regista, dal momento che il problema con il cinema di Gianfranco Rosi sembra essere, spesso, per non dire sempre, il livello di staging, di re-enactment delle situazioni che si trova a filmare.
Correggendo il tiro di un'affermazione riportata nella sinossi ufficiale, direi che forse ha più senso parlare di osservazioni sulla realtà che non di "osservazione della realtà di tutti i giorni". Posizione creativa su cui, almeno in linea teorica, non c'è nulla da eccepire. Queste osservazioni passano, ancora più che nelle prove precedenti di Rosi, da un nemmeno troppo sotterraneo esercizio di straniamento. Innanzitutto, lo spettatore, fin dalle prime inquadrature si domanda quanti giorni di maltempo e cielo coperto si contino, in un anno, a Lampedusa, isola della quale il clima normalmente acclarato è di tipo mediterraneo-desertico. Il luogo è presentato, perlomeno nei segmenti del film che riguardano Samuele, il Medico, l'anziana Maria, il Pescatore e il Dj, con un'intonazione quasi alla Wuthering Heights, un coperchio di nuvole filmate con una certa, ingombrante, insistenza. Viene il sospetto che, con tempi di lavorazione abbreviati rispetto ai film precedenti, e anche alla luce del successo del Leone d'oro, in questo lavoro, scaturito da un'idea di Carla Cattani, personaggio chiave del Luce, Rosi abbia calcato, più che prima, il pedale dell'estetica.
Ma i problemi, etici più che estetici, cominciano quando, nella struttura "a mosaico" di Fuocoammare, non dissimile da quella dei precedenti Below Sea Level e Sacro Gra, si affacciano i tasselli "fuori posto" per eccellenza della contemporaneità, quelle migliaia di migranti che, vedendo in questa lingua di terra a 113 chilometri dalla costa africana un primo step verso una vita diversa, rischiano il tutto per tutto, con le conseguenze disastrose che sono all'ordine del giorno. Se all'inizio si tratta soprattutto di resoconti radiofonici, ma anche di comunicazioni disperate tra i barconi e la Capitaneria di porto, dei racconti e delle foto del Medico, ad un certo punto i profughi arrivano, in tutta la flagranza del loro disperato migrare.
Arrivano con i ben noti, fatiscenti, barconi e vengono caricati su piccole scialuppe, con la macchina da presa che rimane in tutto e per tutto alla loro altezza, a un punto di vista solidale con il loro; ma questa solidarietà effimera finisce con il divergere dei loro percorsi, tanto che l'obiettivo sembra indugiare più sugli effetti delle copertine termiche che non sulle tappe della "prima accoglienza". Diverso, magari più soggettivo, e si torna a un problema di staging e spaesamento, il giudizio su un'inquadratura perfettamente studiata (come quasi tutte, d'altronde), in cui un gruppo di nigeriani canta, secondo le modalità del teatro di strada popolare, quella che sembra ormai un'epica formalizzata e tramandata oralmente, della fuga dei cristiani dall'Africa equatoriale, come si vedeva anche in Show All This to the World di Andrea Deaglio: un coro tragico che ha la potenza didascalica e straniante del teatro, appunto epico, di Brecht.
Però, quando la macchina da presa sale su una scialuppa medica che sta recuperando alcuni passeggeri in condizioni gravissime, quell'esserci, quello stare a ridosso della disperazione, dei respiri affannati, della carne morente rasenta quell'oscenità che in molti credevamo di aver mandato in pensione. Come d'altronde è quasi osceno il posizionamento della camera nella studiatissima inquadratura dove i medici schierati si congedano senza riti dalle salme ormai chiuse dentro ai sacchi. E allora sembra una excusatio non petita il tentativo di far empatizzare lo spettatore con Samuele, con la sua innocente, spontanea anarchia (l'episodio già citato degli spaghetti, ma anche il siparietto scolastico, o il dialogo con il Medico), con il suo lazy eye: una condizione medica, rovesciata in metafora (che davvero sembra riprendere troppo esplicitamente Oppenheimer) che gli impedisce di vedere la realtà, a poche centinaia di metri da sé, mettendola a fuoco, reagendo, crescendo.
(Uccelli, Cineforum)

scheda tecnica a cura di Alessandro Sbrana

 



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