Home
  • Le informazioni
  • Non solo film
  • Il Programma
  • Dove siamo
  • I Link
  • Scriveteci

 


Scheda critica del film:

  

Enclave

(Enklava)

Il Regista
Goran Radovanović è nato a Belgrado nel 1957, si è laureato in storia dell’arte nel 1982. Tra il 1977 e il 1980 ha vissuto a Monaco, grazie a una borsa di studio del Goethe Institute. Tornato in patria, ha lavorato come critico cinematografico per le riviste Vidici e Filmograf. Dal 1984 scrive sceneggiature per film di finzione e documentari. Oggi lavora come professore  presso la scuola di cinema EICTV a San Antonio de los Baños, a Cuba.

NOTE DI REGIA
«Con questo film ho voluto indagare il nodo centrale della disputa serbo-albanese, che quindici anni fa ha portato a guerra, crimini e distruzione. Io intendo far nascere questa domanda: è possibile la coesistenza di queste comunità, in una realtà segnata dalla presenza di enclave, isole abitate da minoranze cristiane circondate da un mare di maggioranza musulmana? La mia risposta è di una chiarezza cristallina: l’odio, basato sulla paura del diverso, permane ancora fra le due comunità. La paura èl’assenza di amore. Per questo l’eroe di questa storia è un ragazzo di dieci anni che osa fare qualcosa di inimmaginabile per cristiani e musulmani del Kosovo: cercare un amico nell’altra comunità. Ho voluto fare un film pacifista, basato su una storia di perdono e amore».
Goran Radovanović

Opera esemplare
Opera dichiaratamente esemplare, Enclave si chiede se sia possibile la convivenza civile tra le nuove generazioni, tra ragazzini che giocano ancora tra le macerie della guerra, dando per scontato che gli adulti siano incapaci di dialogare. La forma che sceglie è la più tradizionale e simmetrica possibile, che a tratti sfrutta l'immaginario western, muovendosi tra movimenti speculari e osservazioni reciproche tra le due "fazioni" in campo, due riti ancestrali che si incrociano (funerale e matrimonio) e un andamento circolare che parte e arriva a uno stesso componimento scolastico (titolo: "il mio migliore amico"). La narrazione procede tra ritmi dilatati, ellissi e incongruenze, dialoghi ridotti al minimo, recitazione rigida, molto classica, musica ingombrante. Alcune scene, una su tutte quella dell'incidente della campana, sono maldestre e troppo palesemente simboliche. Il condivisibile anelito al pacifismo del finale da solo non può riscattare il film dall'insieme di questi elementi e da una retorica pesante.
(myMovies)

Film pacifico
Un film, Enclave, che in qualche modo vuol farsi “pacifico” e mostrare come due comunità in lotta possano trovare un punto d’incontro nell’innocenza e nella spontaneità infantile. Un tema, certo, già visto molte volte (ma qui legato a un conflitto poco conosciuto come quello in Kosovo), eppure poco sviluppato, lasciato forse eccessivamente in secondo piano, liquidato in pochi vaghi istanti finali, per far spazio, piuttosto e con prepotenza, alla lentezza di una vita quotidiana monotona (troppo monotona) e al rancore muto (troppo muto) tra i due mondi.
(Katia dell’Eva, Cineforum)

Lungometraggio emozionante
La guerra, ci mostra il regista con queste figure solitarie, colpisce i più deboli; le vittime della guerra sono le persone che non l'hanno cominciata: i pastori, i preti, i vecchi, ma soprattutto i bambini. La guerra mutila le esistenze, troncando i rapporti e generando violenza che causerà altra violenza. Nenad e Bashkim si osservano da lontano per molto tempo: c'è qualcosa che li attrae, è evidente, ma anche una forza che li respinge, una violenza razziale che impedisce a Bashkim di fidarsi e aprirsi con l'amico……
Un lungometraggio emozionante commovente, che mostra la guerra attraverso gli occhi di un bambino: gli occhi di una creatura che non riesce a percepire il male che lo circonda, che entri in contatto coi serbi, gli albanesi o i militari delle Nazioni Unite. Un racconto di formazione, di rottura dei confini e di tutti i muri sociali, che si muove dentro le vie e le case di un popolo distrutto: una storia che sta dentro ai fatti e che spinge il pubblico a deporre i pregiudizi, mostrando come, in un conflitto, la violenza colpisca sempre i più deboli e generi sempre altra violenza. Un invito ad essere tutti un po' bambini, per osservare il mondo con più leggerezza e dolcezza, per capire l'altro oltre la sua razza o la sua religione, per deporre le armi. Un film ambientato nel passato, che non smette mai di sembrare attuale.
(Marta Terzi, storiadeifilm)

Racconto di formazione
La rappresentazione della violenza è tutta lasciata ai margini della pellicola dove a prevalere è la peregrinazione del piccolo Nanand. E la pregnanza del gioco che non prevede armi da fuoco trova nella sua incontaminata innocenza la ricerca di compagnia e forse di amicizia nell'altra comunità.
Il regista Goran Radovanovic segue il protagonista con distacco ed una partecipazione emotiva limitata, obbedendo con devozione agli stilemi del realismo cinematografico. Il bambino si muove in un paesaggio - troppo illuminato dalla fotografia affascinata dal giallo e dal verde - scarno e dominato da pochi ma quasi sempre problematici incontri. E dunque con cause anorchè nobili, il film avanza con prevedibile instabilità tra ampi momenti dove il tempo morto non è intessuto dalla densità propria delle grandi tragedie e uno svolgimento narrativo che è limitato da un racconto di formazione bloccato nel suo stesso rifiuto di scarti drammaturgici.
Racchiuso da una cornice ornata dagli atavici riti - un matrimonio, un funerale - il finale presenta una rivelazione, ipotesi pacifica, che conseguentemente ad un ellittico andamento liricheggia simbolicamente mettendo in discussione il pur non illuminante rigore fin lì adottato.
Non rifugiandosi, comunque, in consolatorie ipotesi di un domani  migliore. In un film certamente pacifista, ardui sembrano dunque  anche i giorni futuri di questi bambini della guerra: ovunque la guerra si specchia o si specchierà la tragedia sarà sempre tangibile.
(Diego Capuana, onda cinema)

scheda tecnica a cura di Paolo Filauro

 



© 2016 2017 Cineforum Genovese