Home
  • Le informazioni
  • Non solo film
  • Il Programma
  • Dove siamo
  • I Link
  • Scriveteci

 


Scheda critica del film:

  

Il Club

(El Club)

Il Regista
Figlio di due politici conservatori, l'ex presidente dell'Unione Democratica Indipendente Hernán Larraín e il ministro Magdalena Matte, Pablo Larraín, una volta terminato il collegio, studia comunicazione all'Universidad de Artes, Ciencias y Comunicación (UNIACC) di Santiago. Ha fondato "Fabula", una società di produzione audiovisiva e pubblicitaria.
Nel 2005 dirige il suo primo film, Fuga. Nel 2007 realizza la sua seconda opera, Tony Manero, che viene presentato al festival di Cannes e vince numerosi premi tra cui quello di miglior film al Torino Film Festival. Nel 2010 dirige il film Post Mortem, cronaca del golpe cileno del 1973 osservato dal punto di vista di un funzionario dell'obitorio di Santiago. Nel 2012 esce No - I giorni dell'arcobaleno, film sul Plebiscito cileno del 1988. Questo è il terzo film del regista sulla dittatura cilena, a chiudere la trilogia sull'argomento. Il film riceve una nomination agli Oscar nella categoria miglior film straniero.
Nel 2013 è stato membro della giuria della 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Nel 2014 Larraín viene assunto per dirigere una nuova versione di Scarface, ambientata a Los Angeles. Il film è stato riscritto più volte, passando da Paul Attanasio a David Ayer ed, infine, a Jonathan Herman. Nel 2015 esce Il club, che ha vinto il Gran premio della Giuria al Festival internazionale del cinema di Berlino. Sono del 2016 Neruda e Jackie.

I protagonisti sul film
Non abbiamo dato la sceneggiatura agli attori, soltanto poco prima che la scena venisse girata, sicché non sapevano che cosa fossero gli altri personaggi - era come un esercizio per vedere se funzionasse. (Pablo Larraín)
Abbiamo anche scoperto che esiste una congregazione internazionale, fondata negli Stati Uniti, chiamata “Servants of the Paraclete”, che negli ultimi 60 anni si è dedicata esclusivamente alla cura dei preti che non possono più continuare a svolgere le funzioni sacerdotali per diversi motivi, a dispetto del fatto che la maggioranza di questi preti hanno commesso crimini. (Pablo Larraín)
Superando il realismo più estremo nel trattamento estetico e nella struttura narrativa, credo che questo film sia una testimonianza radicalmente politica e rilevante poiché materializza un sogno comune: che questi promotori della fede, questi guardiani di una classe, siano esposti al processo dei cittadini, un processo storico, poiché i lori atti sono stati a lungo diretti, hanno tratto profitto e sono stati nutriti dalla società civile; poiché essi hanno dimenticato e non hanno mai avuto la minima idea di reciprocità; poiché non hanno rispettato il contratto sociale. (Alfredo Castro)
Benché manchi uno slancio politico evidente e specifico - come accade nel caso di Tony Manero, Post Mortem o No, nei quali il panorama e il contesto della dittatura erano tremendamente presenti - con Il club Pablo Larraín continua a rivolgersi a un soggetto che, ai miei occhi, attraversa tutti i suoi film e tutti i ruoli che ho dovuto interpretare: l’impunità (Alfredo Castro)

L’impunità
Senza pretesa di essere espressione esaustiva della verità storica, El Club apre un confronto duro, scomodo e crudele a partire dall'ambigua garanzia di impunità per preti (e militari).
Tra lacune, omissioni e dossier mancanti, padre Garcia verifica le responsabilità morali e politiche di una comunità religiosa che rimette i peccati, disloca mostri e volta pagina. Ma Larraín come Garcia non si accontenta della confessione e trova la misura di compensazione. La corrispondenza della pena alla colpa è incarnata da Sandokan, bambino abusato ieri e adulto disturbato oggi, potenzialmente capace di infliggere all'oppressore la stessa lesione provocata nell'infanzia. Integrato nell'economia domestica, Sandokan è il fantasma con cui fare i conti per rimettere insieme il corpo della nazione, sprofondandolo o riconducendolo coi suoi 'ministri' alla pienezza e all'integrazione della vocazione.
Pablo Larraín sbalordisce ancora col suo approccio libero e il suo cinema frontale, fatto di piani che isolano i protagonisti costringendoli a una relazione privilegiata con la propria pena. Perché un controcampo e un altro sguardo li lascerebbe esistere, passare all'atto. Senza scrupoli.
(Marzia Gandolfi, myMovies)

Umorismo nero
El club è un lavoro di grande bellezza e solidità, che oltre a reggersi su una sceneggiatura e su una regia eleganti, può contare su un gruppo di attori la cui forza si esprime sia nella chimica d’insieme sia nelle singole interpretazioni. Anche questa volta, il regista cileno affida al suo attore di punta Alfredo Castro la parte di un uomo complicato, dalla storia e dalla psiche labirintiche. Insieme a lui ritroviamo anche Antonia Zegers, anch’essa presente in tutti i lavori precedenti di Larraín e Roberto Farías, già apprezzato in No – I giorni dell’arcobaleno, nel ruolo di Sandokan, un vagabondo che scompagina gli equilibri del club destabilizzando allo stesso tempo anche le coordinate interpretative con cui lo spettatore si aspetterebbe di poter interpretare il suo personaggio di vittima di abusi.
Pur tragico per tema e ambientazione, il film diverte lo spettatore con il suo umorismo nero e dissacrante a cui fa da controcanto la colonna sonora con brani originali di Carlos Cabezas associati a passaggi solenni e oscuri di compositori come Benjamin Britten e Arvo Pärt.
(Silvano Nugara, cultframe)

Reality show
Portato dall’esterno e attento a non carbonizzare simbolicamente una materia già intrinsecamente incendiaria, lo sguardo di Larraín configura un microcosmo spaziale che riformula grottescamente e causticamente la retorica visiva dei reality show (non sembri fortuita la concomitanza della prima materializzazione di Sandokan con la visione del reality trasmesso dalla Televisión Nacional, così come la minaccia di Madre Monica a Padre García di chiamare la televisione nell’eventualità della chiusura della casa). Ma questa volta il Grande Fratello è nientemeno che Dio, l’onnisciente e onnipotente regista dello spettacolo che si svolge all’interno casa, spettacolo in cui i religiosi non sono altro che marionette, pupazzi eterodiretti, infantili e inconsapevoli agenti della sua volontà
(Alessandro Baratti, spietati.it)

il racconto implacabile e nebuloso di Larraín, che gioca con luce, ombra e controluce in modo tale da rendere sempre compresenti e compenetrati chiaro e scuro, in omaggio alla citazione della Genesi che apre il film, non condanna nessuno ma mette a nudo in ridicolo colui che è arrivato per giudicare e punire, e che finisce col peccare più di chiunque altro: ovvero la Chiesa stessa, dai preti esiliati fino al gesuita, e a chi sta sopra di lui.
Tanto affilato nel raccontare meschinità e ipocrisie tanto amaro nel constatare come tutto cambi affinché tutto rimanga uguale, El club è anche dolosamente sardonico e non rinuncia a strappare via sorrisi a colpi di tagliente ironia. Ma sono sorrisi come ferite, che sanguinano l'orrore di quel male che vuole essere nascosto nell'ombra, per poter continuare a essere sé stesso e che finisce con l'incarcerare perfino le sue vittime. Perché, dice Larraín, fino a che la Chiesa non abbraccerà la sua fallibile umanità, e i limiti e i diritti del corpo, da questa spirale di peccato e negazioni non c'è via d'uscita.
(Federico Gironi, Comingsoon)

scheda tecnica a cura di Paolo Filauro

 



© 2016 2017 Cineforum Genovese