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Scheda critica del film:

  

Break up

L'uomo dei 5 palloni

La storia del film
Il film viene iniziato a girare a Milano verso la fine del 1963, sotto Natale, ed è terminato nel gennaio del 1964. Come lungometraggio, ottiene il visto di censura, col titolo L’uomo dei 5 palloni, il 30 giugno 1964 e dura 82’: senza divieto ai minori e senza richiesta ufficiale di tagli; ma ufficiosa sì, come era già avvenuto per L’ape regina versione Una storia moderna. È cioè la Champion a dichiarare di aver eliminato dalle copie le seguenti scene (reintegrate poi in Breakup): “Spaak e Mastroianni sul letto: quando Mastroianni toglie con la bocca il latte condensato sul ventre della Spaak, terminando la scena con Mastroianni che dice: “Io quasi me la mangio””.
Il film a questa data prevede già una distribuzione, la Interfilm, ma, caso assai raro se non unico – e ribaltamento beffardo di ciò che era successo a Ferreri con L’ape regina –, viene bloccato dal produttore Carlo Ponti, “ritenendo che il lavoro non avrebbe riscosso i consensi del pubblico” (“Cineforum”, n° 50, dicembre 1965) o perché “preoccupato del buon nome degli attori protagonisti” (nota de L’Officina Filmclub, 1979).
Passa comunque un bel po’ di tempo prima che Ponti si decida a fare qualcosa del film; e lo fa all’insaputa di Ferreri, se ancora alla fine del 1965 nelle interviste a “Primi Piani” e a “Filmcritica”, quest’ultimo non fa menzione della riduzione del lungometraggio a episodio e dichiara che “è il film che mi piace di più in questo momento”, aggiungendo che “uscirà tra poco”.
Invece, mentre Ferreri ha abbandonato l’ingannevole idillio con Ponti per tornare fra le braccia più complici di Sansone, Ponti ha fatto girare a Eduardo De Filippo e a Luciano Salce due episodi a colori, L’ora di punta e La moglie bionda, e ha rimontato e rimissato il lungometraggio riducendolo a un episodio di 35’ dallo stesso titolo che mette in testa allo “scherzo in tre atti” (anche Controsesso era diviso in atti) Oggi, domani, dopodomani, un titolo che proietta in avanti quello di un altro film a episodi di Ponti, di clamoroso successo, Ieri oggi domani di De Sica, uscito nel dicembre 1963. Il nuovo visto di censura è del 14 dicembre 1965 e una settimana dopo il film esce in prima nazionale per le vacanze di Natale, rimanendo però ben lontano dal successo del predecessore.
Nel gennaio 1967, Ferreri è di nuovo al lavoro, con Sansone, per realizzare L’harem, il suo primo film a colori.
Intanto, l’esperienza de L’uomo dei 5 palloni deve bruciargli dentro se, finito L’harem, accetta l’invito di Ponti a rimettere le mani sul film. Fresco del successo di Blow-up (1966), realizzato per la Mgm, Ponti vede la possibilità di vendere la nuova versione all’estero, puntando anche sull’ancora vivo potenziale commerciale di Catherine Spaak e del sempreverde Mastroianni.
È in effetti la Mgm che distribuisce in Francia nel 1969 Break-up.
Riesumando, Ferreri trasforma. Gira a Roma tre nuove scene, che si inseriscono con assoluta perfezione di raccordi nel vecchio film: quella dell’antiquario, suddivisa in due momenti, uno all’inizio e uno alla fine del nuovo film; quella del vicino di casa William Berger (diretto poco
prima nell’Harem); e quella a colori, lunga e complessa, della discoteca.
Raddoppiato, rimusicato e rimissato, il film è pronto nell’autunno del 1967.
Nonostante le illusioni di Ponti e di Ferreri, il film non uscirà mai pubblicamente in Italia, mentre ha una sua breve uscita a New York nel
giugno del 1968 con titolo The Man with the Balloons e una a Parigi nel luglio 1969 con titolo Break-up prolungato nella pubblicità dal sottotitolo Erotisme et ballons rouges.
In Italia il film viene visto – non so in che versione – nelle ancora sopravvissute Giornate del cinema di Venezia del 1973, poi almeno in una proiezione all’Officina di Roma nel febbraio 1977, per essere infine diffuso non commercialmente nell’estate del 1979 dal Lab 80, ma in 16mm, in una brutta copia a contatto ricavata dal positivo sottotitolato in francese, senza viraggio rosa e con la sequenza a colori in bianco e nero.
Confrontando l’episodio con Break-up si notano, al di là dei tagli, molte differenze, che riguardano sostanzialmente: scene o inquadrature presenti nell’episodio e non nel film; scene presenti in entrambi ma utilizzando ciak differenti; ridoppiaggio, con battute spesso diverse, di Break-up; e, sempre in Break-up, nuove musiche e nuove elaborazioni di musiche preesistenti dell’episodio.
(Adriano Aprà, L’uomo dei 5 palloni in Marco Ferreri – Il cinema e i film, Marsilio, Venezia 1995)

Marco Ferreri
Regista cinematografico, nato a Milano l'11 maggio 1928 e morto a Parigi il 9 maggio 1997. Il suo approccio al cinema avvenne nel segno del grottesco e dell'humour nero, anche se F. non amava particolarmente quest'ultima espressione, interpretata come una forma di freddezza nei confronti degli uomini e delle cose. Agli inizi della sua carriera volle anzi sottolineare la sua appartenenza al Neorealismo, sia pure a un 'neorealismo comico', senza eroi (ben distinto, in ogni caso, dal cosiddetto neorealismo rosa). In seguito, però, anche la definizione di neorealista si rivelò progressivamente meno pertinente: il suo cinema divenne sempre più rarefatto, 'freddo', quasi un referto di patologie comportamentali. Rappresentò un caso raro nel panorama del cinema italiano, che conta un numero limitato di opere venate di sfumature grottesche, comunque prive di quel tratto tipico che fu la caustica 'cattiveria' ferreriana. Tra i riconoscimenti che gli vennero tributati, il Gran premio della giuria al Festival di Cannes nel 1978 per Ciao maschio (1978), il David di Donatello nel 1982 per Storie di ordinaria follia (1981) e l'Orso d'oro a Berlino nel 1991 per La casa del sorriso.
Dopo i primi tentativi, falliti, di organizzare in ambito italiano, sulla scia di Cesare Zavattini, una serie di 'riviste filmate' del genere film-inchiesta (uscì solo il 'primo numero', il film collettivo L'amore in città, 1953), F. preferì tentare l'avventura in Spagna (1956), dove avvenne il fondamentale incontro con lo scrittore satirico Rafael Azcona Fernández, vicino agli ambienti del dissenso anti-franchista. F. sentì profondamente affine la cultura spagnola del grottesco macabro in cui si riconobbe, e con Azcona come co-sceneggiatore girò il suo primo film, El pisito (1958), al quale seppe conferire "la smorfia tragica di una fantasia buñueliana" (Grande 1974, p. 20) nel raccontare la vicenda grottesca di un giovane che sposa la vecchia proprietaria della pensione in cui abita, attendendone la morte per ereditare l'appartamento. Dopo Los chicos (1959), scritto con Leonardo Martín, la collaborazione con Azcona proseguì con El cochecito (1960), in cui il tema sociale della solitudine dei vecchi è poco più che il pretesto per un apologo atroce su una condizione generale di isolamento irrimediabile. Nel 1961 F. fece ritorno in Italia, senza però interrompere il sodalizio con Azcona insieme al quale firmò le sceneggiature delle sue opere successive in cui si vennero precisando i temi tipici del regista (o meglio, le sue ossessioni). Se Una storia moderna: l'ape regina (1963, titolo con cui il film, su soggetto di Goffredo Parise, in origine L'ape regina, venne infine programmato dopo essere stato bloccato dalla censura e aver subito alcuni tagli) è un ritratto impietoso di una società mostruosa e bigotta, rappresentata dalla bellissima Regina (Marina Vlady) che provoca la morte del marito (Ugo Tognazzi), inesorabilmente consunto in nome di un assillo tormentoso di procreazione, in La donna scimmia (1964) il tema della mostruosità e del suo sfruttamento a fini spettacolari si intreccia con quello della donna-animale (e vittima), che sarebbe tornato anche in La cagna (1972). In due mediometraggi, compresi in altrettanti film a episodi, F. tracciò poi la fisionomia di esistenze fallite: quella di Il professore (1964, episodio di Controsesso), figura laida e grottesca, la cui vita si dibatte tra morbosità e frustrazioni, e quella dell'ingegnere (Marcello Mastroianni) protagonista di L'uomo dei cinque palloni (uscito in Italia nel 1965 come episodio di Oggi, domani, dopodomani, e riedito in Francia nel 1969, in versione integrale, con il titolo Break up, erotisme et ballons rouges), dominato da un'idea ossessiva (calcolare l'esatta quantità di aria necessaria perché un palloncino risulti gonfiato al massimo senza scoppiare) che lo porterà al suicidio in un finale che è un trionfo di crudele cinismo. Dopo Marcia nuziale (1966), altro film a episodi tutti diretti da F. pur con esiti alterni, L'harem (1967) segnò una vera e propria svolta nel suo cinema. Se in passato aveva già rivelato il volto mostruoso della normalità, con quest'opera il regista presenta direttamente, portandoli in piena luce, i mostri che passano al contrattacco, si alleano e complottano: gli uomini si coalizzano contro la donna al centro della vicenda (Carrol Baker), la uccidono, spingendola giù da una scogliera, in una congiura di morti viventi. La società dei mostri sceglie dunque la strada dell'eliminazione dei diversi e la percorre fino in fondo. In Dillinger è morto (1969), sceneggiato, come il successivo, con Sergio Bazzini, F. si cimentò invece nel microstudio comportamentistico della giornata, fatta di accadimenti insignificanti e tempi morti, di un pubblicitario in crisi (Michel Piccoli), che alla fine tenta una fuga improbabile, a bordo di una nave magica, verso una terra il cui sole violaceo sembra richiamare l'universo della favola, ma anche (forse) il mondo apocalittico, post-catastrofe atomica, disegnato dal regista in Il seme dell'uomo (1969). In quest'ultimo film appare ancora più forte la volontà di autodistruzione dell'uomo che alla fine riesce a liberare completamente il pianeta dalla propria presenza: solo dei manichini di plastica allineati sulla riva di un mare morto rimangono a testimoniare il passaggio umano nel mondo.
Dopo un documentario del 1970 sulla contestazione giovanile negli Stati Uniti (Perché pagare per essere felici!), F. tornò a lavorare con Azcona per L'udienza (1972), apologo kafkiano dal clima sempre più gelido, agro e asfittico, in cui un candido giovanotto (Enzo Jannacci) muore nel tentativo di essere ricevuto in udienza dal Papa, divenendo vittima di un sottile rituale i cui celebranti sono, ancora una volta, i mostri dell'ufficialità. In La cagna, scritto con Jean-Claude Carrière dal racconto Melampus di E. Flaiano, ciò che conta invece, al di là dell'apologo sulla solitudine, è il tempo, uguale, sospeso e immobile in cui il film, quasi cullandosi, si dipana nello spazio racchiuso e claustrofobico dell'isola dove il protagonista (Marcello Mastroianni) si è ritirato, alla ricerca di una pace impossibile.In La grande bouffe (1973; La grande abbuffata), F. radunò tre attori cui era legato da rapporti di profonda amicizia, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Michel Piccoli, ai quali si aggiunse Philippe Noiret, coinvolgendoli in un rituale di degradazione e di morte: il suicidio collettivo attraverso l'ingestione di cibo, lo sfondamento della norma corporale. Un tema, quello dell'eccesso di cibo, che ossessionò sempre F. e che si ritrova nel cannibalismo di Los negros tambien comen (1988; Oh come sono buoni i bianchi!!!), in La carne (1991), nonché nel documentario girato per la televisione francese Fais ce que voudras (1994), dedicato alle mangiate pantagrueliche che si svolgono nella provincia francese durante i festeggiamenti in onore di F. Rabelais. Con Touche pas la femme blanche (1974; Non toccare la donna bianca) affrontò il problema, da lui molto sentito, della degradazione degli spazi urbani (in questo caso il grande vuoto provocato dalla demolizione del quartiere di Les Halles a Parigi) inteso come correlato di una più generale degradazione sociale che nel film viene adombrata anche dalla metafora western (una burlesca ricostruzione della strage di Little Big Horn, dove gli indiani rappresentano i proletari senza casa e i soldati stanno dalla parte degli speculatori edilizi). Mentre in L'ultima donna (1976) tornò all'analisi del rapporto uomo-donna e al tema dell'autodistruzione dell'uomo, scegliendo come protagonista Gérard Depardieu, interprete anche, in un ideale dittico, del successivo Ciao maschio, grottesco e malinconico addio alla centralità del ruolo maschile nella società e nel rapporto di coppia. F. volle quindi affrontare nuove tematiche, dedicandosi alla valorizzazione del mondo dei bambini (Chiedo asilo, 1979, con Roberto Benigni), accostandosi al mondo maledetto dello scrittore statunitense Ch. Bukowski (Storie di ordinaria follia) e alla vita difficile di un'attrice moderna (Storia di Piera, 1983, con Piera degli Esposti). Tentò poi la ricerca di nuove risposte all'indagine spietata sugli equilibri, le dinamiche, le prospettive del rapporto uomo-donna nei meno riusciti Il futuro è donna (1984), dal significativo ed esplicito titolo, e I love you (1986). Interessante, invece, il riaccostamento ai temi della vecchiaia (già affrontati nel lontano El cochecito) con La casa del sorriso, in cui appare sempre più radicale il ricorso a una lenta estenuazione narrativa, mediante la quale sembra che il cinema si vada consumando e lentamente esaurendo. Nel 1992, rinsaldando i suoi legami transalpini, F. girò per la televisione francese Le banquet, versione 'materialistica' (e perciò paradossale) del Simposio di Platone, e continuò il suo lavoro di sottrazione filmica nei vagabondaggi melanconici lungo le strade di una Roma irriconoscibile in Diario di un vizio (1993). Il suo ultimo film, Nitrato d'argento (1996), è una crepuscolare celebrazione della fine del cinema e dei cinema, intesi come sale, luoghi di un rito collettivo di cui si va perdendo anche la memoria.
(voce Ferreri Marco di Alessandro Cappabianca, Treccani Enciclopedia del Cinema)

Un po' di critica

In pieno boom economico, il film di Ferreri è una metafora sul consumismo e sul neo-capitalismo.  È una critica ad una società ormai superficiale, succube dell’ordine, chiusa nelle certezze della quotidianità, ma fragililissima, infatti non appena qualcosa di irrazionale vi irrompe dentro, ogni certezza si frantuma, poiché tutto ciò che non è quantificabile (come la quantità d’aria che può contenere il palloncino) e tutto ciò che non si può spiegare razionalmente, fa paura. Una società che non si ferma mai, che è alla ricerca continua dell’espansione, che immette, immette e immette.
” Il problema è il seguente: quanta aria, al limite, può contenere senza scoppiare il tenue involucro di gomma? Quanto benessere neocapitalista può essere pompato nella società senza farla scoppiare? […] Break-up, insieme a Dillinger è morto, è probabilmente il miglior film di Ferreri(cit. Alberto Moravia).
Il film tratta anche il tema dell’assenza di comunicazione e di comprensione tra esseri umani, ciò che dà sconforto non è che nessun personaggio riesca a capire perché il protagonista si comporti in modo tanto bizzarro, ma è che nessuno voglia nemmeno provare a capire tale comportamento, ciò che disturba è la passività e l’apatia di chi gli sta intorno, che osserva impotentemente e svogliatamente l’autodistruzione di un uomo.Il tutto è magnificamente narrato da Ferreri con il suo riconoscibilissimo tocco grottesco e surreale, che esplode nella nichilistica scena finale (dove il grande Ugo Tognazzi, fa una fugace apparizione che sarà difficile da dimenticare) e nell’onirica sequenza a colori, definita da Gian Luca Farinelli stesso, durante la presentazione del film a Venezia, “uno dei cambi di colore più schockanti della Storia del Cinema”.
Un cinema con la C maiuscola,  di uno dei più grandi autori italiani, amatissimo dalla critica francese e spagnola, ma purtroppo non così conosciuto tra i nostri cinefili. Autore di film come Una Storia Moderna: L’Ape Regina, La Donna Scimmia, Dillinger è Morto, L’Udienza e La Grande Abbuffata che svettano nella cinematografia italiana.
(lascimmiapensa.com)

Break up rappresenta una spietata analisi di Ferreri sulla superficialità della società capitalistica: quando il protagonista smette di produrre e, per la prima volta nella sua vita, si pone un interrogativo che non consista nella ricerca di un modo per fare più soldi, ne viene annichilito, incapace di darsi risposte e di trovarne nelle persone vuote che lo circondano.
Il film, che è anche una parabola sulla mancanza di comunicazione nella società moderna, può inoltre essere considerato come una metafora dell'incapacità di una completa realizzazione dell'essere umano, poiché è impossibile sapere quanto si possa gonfiare completamente un pallone senza che esso ad un certo punto scoppi, lasciando così privi della possibilità di quantificarne la capienza massima.
(wikipedia)

scheda tecnica a cura di Maurizio Monero

 



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